Nel mese di maggio sono state avviate le sperimentazioni in campo del progetto BRESCIA presso Aziende Agricole Iside e Ortobioattivo.
Il progetto, capofilato dall’Università di Brescia, si prefigge di ridurre l’impiego di rame attraverso l’uso di biostimolanti (Trichoderma Atrobrunneum inoculato su cippato aziendale) per contrastare le principali patologie fungine su lattughe e pomodoro da industria, incrementando parallelamente la fertilità del suolo e la qualità dei prodotti. Saranno valutate anche le eventuali effetti nutraceutici e proprietà antinfiammatorie.
Nelle foto: primo trattamento on-farm in corrispondenza dei trapianti.
La biodiversità come pratica scientifica e politica
A molti il nome di Marcello Buiatti (1938 – 2020) non dirà molto, anche se ha avuto un impatto fondamentale nella costruzione delle relazioni tra scienza e politica in Italia. Genetista e teorico dell’evoluzionismo noto in tutto il mondo per i suoi contributi di biologia teorica, Buiatti si era laureato in Scienze Agrarie all’Università di Pisa e si era specializzato presso la Scuola di Genetica allora da poco creata da Buzzati Traverso all’Università di Pavia negli anni ’60. Dopo i soggiorni all’estero, presso l’University of Swansea e il Brookhaven National Laboratory, è stato ricercatore del CNR a Pisa e successivamente dal 1981 fino al suo ritiro nel 2010 professore ordinario di genetica all’Università di Firenze. Scienziato di fama mondiale è considerato uno dei
fondatori dell’ambientalismo scientifico contrastando con il suo pensiero e le sue opere, quella cultura e ideologia che vuole l’economia dominare sulle leggi di natura. Le crisi climatiche ne sono un formidabile esempio recente. Al di là della sua vasta produzione scientifica, con oltre 200 pubblicazioni in gran parte su riviste e in volumi internazionali, Buiatti è stato socio di Legambiente e di Ambiente e Lavoro, con cui ha svolto sempre attività di divulgazione scientifica espressa in modo rigoroso e preciso, come nel 2004 quando il Ministro Moratti cercò di escludere l’evoluzionismo dai programmi ministeriali. Buiatti fu in prima linea a denunciare la stupidità di un tale provvedimento e riuscì con altri a rovesciare quell’azione oscurantista. Lo stesso impegno lo mise, pochi dopo, nella lotta agli OGM.
Il suo approccio alla genetica è sempre stato vissuto e raccontato come uno studio interdisciplinare, in dialogo con le discipline umanistiche, l’epistemologia e la società su cui le pratiche scientifiche incidono. Le sue ampie vedute hanno contribuito a fondare una nuova visione delle scienze biologiche e della biodiversità. Quel “benevolo disordine” era il suo modo per definire la vita e il suo amore per essa, per le infinite vite così differenziate e imprevedibili che aveva studiato per decenni.
La frase attribuitagli più spesso è “siamo vivi per diversi” e questa diversità era stata uno dei frutti più belli che aveva colto nel corso della sua vita. Dall’associazionismo ambientalista e scientifico, che aveva contributo a fondare, alla Scienza con la s maiuscola, alla politica Buiatti si è sempre speso con entusiasmo e passione per contrastare il riduzionismo scientifico e la perdita di biodiversità da lui sempre contrastata, a partire dal suo ruolo di professore universitario.
Nell’infanzia aveva conosciuto le leggi razziali e il rischio di venire deportato sotto il regime fascista perché di madre ebraica. Un’esperienza che lo aveva segnato profondamente trasformandolo in una persona dolce, affabile e sincera, coinvolta attivamente anche nell’associazionismo tanto da diventare presidente dell’ANPI di Pisa ed estensore del Manifesto Antirazzista di San Rossore nel 2008. Vale la pena soffermarsi un attimo su questo manifesto che si apre con un proclama chiaro e inequivocabile: “Le razze umane non esistono. L’esistenza delle razze umane è un’astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze psicologiche e interpretate sulla base di pregiudizi secolari”.
Una chiarezza estrema che oggi sembra dimenticata e superata da un’involuzione pericolosa e perversa alla quale non avremmo voluto mai assistere.
Sui media si parla poco dei negoziati in corso in Europa su temi fondamentali come la ricerca, gli Ogm o la commercializzazione dei semi. È un problema scrive Riccardo Bocci della Rete Semi Rurali
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 266 – Gennaio 2024
A guardare la presenza sulla stampa italiana dei temi relativi all’agricoltura, sembra che i problemi principali del comparto siano l’avvento della carne sintetica e la difesa del made in Italy. Il dibattito nostrano non riesce a estendere lo sguardo fino a Bruxelles per discutere di quei regolamenti proposti dalla Commissione europea -negoziati in questi mesi- che avrebbero dovuto essere l’impianto normativo su cui si sarebbero dovute ancorare le strategie “Farm to fork” e “Biodiversità 2030”.
Eppure si tratta di temi centrali che andranno a definire l’agricoltura europea del futuro: riduzione dell’uso dei pesticidi, maggiore integrazione tra agricoltura e ripristino della natura, nuove regole per la commercializzazione delle sementi e, in ultimo, apertura ai nuovi Organismi geneticamente modificati (Ogm) o Tecniche di evoluzione assistita (Tea). Quali posizioni sta prendendo l’Italia nel dibattito ancora in corso su questi dossier? Quali interessi difende? In che modo queste posizioni vengono negoziate? Sono tutte domande legittime in democrazia, ma a cui difficilmente oggi si riesce a rispondere.
Un ruolo importante lo giocano ancora i sindacati, ma non si vedono all’orizzonte quelle aperture necessarie per portare il dibattito nella società civile. Dovrebbe però essere ormai evidente che la produzione del cibo non riguarda solo il reddito degli agricoltori -seppur importante- ma ha un impatto sulla salute dei cittadini. Quindi le politiche agricole dovrebbero essere integrate in quelle ambientali e di salute pubblica. Non a caso a livello scientifico si parla ormai dell’approccio “One health”, in cui la prevenzione gioca un ruolo importante anche nel ridurre i costi pubblici del sistema sanitario.
Un altro tema, poi, è completamente assente dal dibattito pubblico: la ricerca agricola. In questa nuova visione dell’agricoltura che ruolo potrebbe giocare? Purtroppo, anche in questo caso, sulla stampa al massimo arriva l’eco del negoziato sui nuovi Ogm, dove non c’è spazio per il dialogo: chi non sposa queste nuove tecnologie viene visto in automatico come un retrogrado passatista, incapace di apprezzare il progresso. O si accetta il genome editing, panacea per ogni problema, o il baratro.
In realtà, la scienza è un mondo un po’ più articolato e complesso, come dimostra un articolo uscito nel 2022 sulla rivista scientifica Agronomy for sustainable development dal titolo “Pesticide-free agriculture as a new paradigm research”. Gli autori individuano le linee entro cui sviluppare un sistema di ricerca per un altro modello agricolo, il cui nodo centrale è studiare e promuovere la diversificazione a livello colturale, nel tempo (con le rotazioni) e nello spazio (con le colture associate).
Il 2033 è l’anno in cui scadrà l’autorizzazione all’uso del glifosato approvata a novembre 2023 dalla Commissione europea.
In questo quadro, bisogna indagare altri parametri rispetto alla ricerca attuale: comprendere le capacità delle piante a essere associate, studiare le relazioni tra pianta/suolo/comunità microbiche e adattare le varietà ai metodi di coltivazione senza pesticidi. Come si vede un’agenda ricca che integra le scienze agronomiche con quelle ecologiche e biologiche orientate a studiare la complessità delle comunità vegetali e microbiche.
Gli autori evidenziano anche come le politiche pubbliche potrebbero supportare questo cambiamento, ad esempio favorendo azioni collettive a livello territoriale e reti di scambio di conoscenze tra attori, rinnovando i sistemi di assistenza tecnica e formazione, oppure modificando il quadro legale sulla commercializzazione delle sementi per permettere la vendita di varietà non uniformi. Guarda caso, quest’ultimo è proprio il punto su cui si negozierà fino ad aprile 2024 al Parlamento europeo. Un’occasione da non perdere per cominciare a cambiare volto all’agricoltura europea.
Languages: original audio with subtitles in Italian and English (soon French and Hungarian to be added)
Farmers, scientists, bread makers and food producers, local communities, demanding consumers: these are all players of a new movement that has accepted a great challenge, the challenge of changing the agricultural practice. A goal to be reached by doing research and promoting innovation taking advantage of the enormous amount of knowledge offered by those who have been producing and transforming agricultural goods for long time.
In the past decades, many farmers and agronomists are bringing back to the field local and traditional cereal varieties that were being lost to give way to very few, uniform and identical ones that are best suited to be employed in large industrial transformation processes.
Local varieties, on the contrary, are very diverse, selected through centuries in many different climates, soil conditions and food preparations. Their restoration today, through the practice of participatory breeding by those who have long term experience in farming and those who know well their chemical and genetic features, opens the door to a vast range of products and new local value chains.
Local and international networks of farmers, producers, consumers and researchers are bringing back high quality productions and cultural values that differ in each territory and that are not indistinctly uniform everywhere in the world. Rural networks promote the role of farmers as major players in food production. At the same time they highlight that agrobiodiversity is a key value for development, resilience to climate change, social and cultural growth as well as local sustainable management.
The documentary entitled “Cereal – renaissance in the field” presents the new local value chains, from seeds to final products, through the words, stories, emotions of five key players: farmers, researchers and producers. Around them and with them, the communities and networks that bring their passion to the field, convinced that agriculture should not be treated as an industrial process. People who know that agricultural diversity is the key to keep together communities, territories, cultures, environment and health, tradition and innovation.