Il settore privato non ha mai pagato le compensazioni previste dal Trattato Fao. A Lima a fine novembre c’è una riunione chiave con 154 Paesi.
a cura di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 286 – Novembre 2025
Dal 24 al 29 novembre si terrà a Lima, in Perù, l’undicesima riunione dell’Organo di governo del Trattato Fao sulle risorse genetiche vegetali per l’agricoltura e l’alimentazione. L’incontro vedrà la partecipazione di 154 Paesi, riuniti per discutere del futuro della risorsa alla base dei nostri sistemi agricoli: la biodiversità che troviamo espressa nelle piante coltivate e nelle migliaia di varietà di ogni singola specie.
Il Trattato è stato approvato nel 2001 e dalla sua ratifica nel 2004 si occupa di gestire l’accesso alle risorse conservate nei frigoriferi delle banche pubbliche delle sementi con un approccio multilaterale e facilitato. Non bisogna negoziare o stabilire un compenso per avere accesso alle sementi ma semplicemente aderire al cosiddetto Accordo di trasferimento materiale (Atm), che è standard e uguale per tutti.
Grazie a questo sistema specifico per la diversità agricola più di sette milioni di accessioni (campioni conservati nelle banche) sono disponibili e ogni anno vengono firmati più di centomila Atm. Inoltre, il Trattato si occupa di favorire politiche sui diritti degli agricoltori sulle sementi e sulla conservazione e l’uso sostenibile della diversità agricola.
Purtroppo, però, uno degli obiettivi del Trattato in questi venti anni di funzionamento non si è realizzato. Si tratta della compensazione monetaria che dovrebbe arrivare dal settore privato per avere accesso alle sementi conservate e che dovrebbe finanziare il Fondo di ripartizione dei benefici gestito dal Trattato stesso. Una sorta di bilanciamento dei diritti di proprietà intellettuale sulle sementi, pensato anche come risarcimento per aver usato per decenni le varietà locali come materia prima per la ricerca senza nessuna compensazione. Fino ad oggi le risorse arrivate dal settore privato sono irrisorie e il Fondo è stato alimentato da contribuzioni volontarie degli Stati, in particolare Italia e Norvegia.
I Paesi industrializzati hanno sostenuto molto poco questo strumento, non capendo il valore simbolico che avrebbe potuto avere, anche in un’ottica di risarcimento rispetto al nostro passato coloniale estrattivista. Come dire: finora abbiamo usato le risorse del Sud globale in maniera gratuita ma da oggi contribuiamo al Fondo per sostenere lo spirito multilaterale del Trattato e riconoscere il lavoro degli agricoltori nello sviluppo della diversità agricola nel corso della storia.
Sono sette milioni i campioni conservati nelle banche delle sementi e accessibili grazie al Trattato Fao sulle risorse genetiche vegetali per l’agricoltura e l’alimentazione
L’Europa avrebbe dovuto giocare ben altro ruolo, facendo proprie le aspettative dei Paesi del Sud e sostenendo finanziariamente sia il Fondo sia il Trattato con contribuzioni volontarie dei singoli Stati in assenza di quelle del settore sementiero privato. Si è invece limitata a difendere l’accesso facilitato in faticosi negoziati giocati sulle virgole, senza nessuna visione di lungo periodo. E senza capire che la posta in gioco è troppo alta per lasciare queste scelte in mano ad avvocati esperti di proprietà intellettuale che si preoccupano di difendere gli interessi consolidati dei singoli Paesi o dei loro operatori economici.
Sarebbe bastato poco in termini economici ma avrebbe significato tanto in termini politici. Mettere risorse economiche sul Fondo, anche in maniera volontaria, avrebbe permesso di arrivare alla riunione di novembre con meno conflitti tra Paesi del Nord e del Sud del mondo e una visione condivisa sull’importanza del Trattato come strumento multilaterale di accesso alle sementi e ripartizione dei benefici. Al contrario: vedremo le due parti su posizioni sempre più polarizzate, il Nord in difesa dell’accesso alle sementi per la ricerca e il suo mondo sementiero privato e il Sud in difesa della sovranità nazionale sulle risorse genetiche e di una ripartizione economica derivante dal loro uso. Uno stallo da cui è difficile prevedere una via d’uscita.
Il 16 Ottobre 2025 si è tenuto il workshop “Il Cibo che Cambia” presso la Franco Angeli Accademy, nell’ambito del progetto OnFood. Antropologi, agronomi, biologi ed economisti hanno dialogato a partire da casi studio che rappresentano la crisi dei sistemi agricoli attuali a fronte delle Crisi Climatiche in tutte le loro ampie sfaccettature.
L’agroecologia e il cambio di modello di interpretazione delle nature e del non umano, così come del lessico interpretativo, superando il paradigma fossile, sono stati al centro della riflessione nei momenti comuni, in quelli di attivazione e nei gruppi di lavoro. RSR ha contribuito in virtù della sua esperienza profonda proveniente dal lavoro sul campo e dalla riflessione collettiva, sottolineando la necessità di un approccio socialmente inclusivo, innovativo e basato sulla co-creazione e la condivisione delle conoscenze.
Siamo sicuri sia l’unica strada perseguibile? Abbiamo bisogno di un piano B
di Riccardo Bocci – Rete Semi Rurali
L’agricoltura europea si trova ad affrontare nuove e rapide sfide globali in continua evoluzione, come il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, e la necessità di rendere più sostenibili i nostri sistemi agroalimentari.
Inoltre, malgrado i passi indietro rispetto allo slancio del Green Deal, è ancora attuale l’obiettivo di raggiungere il 25% della superficie agricola biologica entro il 2030, definito nelle Strategie Farm to Fork e Biodiversity, come sono operative le misure di attuazione previste dal Regolamento UE 2024/1991 (Nature Restoration Law) che richiedono una transizione verso sistemi agricoli alternativi. Proprio per favorire questa transizione l’Unione Europea ha lanciato il nuovo Partenariato sull’Agroecologia. Rispondere a queste sfide e, allo stesso tempo, mantenere una produzione in grado di soddisfare la domanda, richiede una ricerca agricola più aperta, inclusiva e decentralizzata, capace di rispondere in tempi rapidi ai problemi e con un alto grado di flessibilità e resilienza. Solo in questo modo il settore agricolo sarà capace di rinnovarsi.
Un ruolo centrale lo avrà il miglioramento genetico che dovrà produrre varietà diversificate, resilienti e innovative, adattate ai diversi sistemi agricoli e alle diverse filiere. In questo articolo raccontiamo come si sta evolvendo il mondo del miglioramento genetico in Europa e le diverse forze in gioco che nei prossimi anni ne fisseranno il perimetro. Si tratta, sempre più, di forze divergenti e, come vedremo, in opposizione, dove il tentativo di trovare una visione comune è difficile.
Cominciamo con vedere quali fattori stanno spingendo il miglioramento genetico verso una maggiore concentrazione e specializzazione tecnologica del settore. In questo caso la risposta della ricerca difende lo status quo, cercando nelle nuove tecnologie le risposte salvifiche a ogni problema.
Il primo fattore è senza dubbio legato alla genomica e alle nuove tecniche di manipolazione del DNA (leggi CRISPR/CAS) che stanno plasmando la ricerca, con effetti che si estendono alle sue dimensioni pratiche, sociali, epistemiche e tecnologiche. Questi strumenti pongono nuove sfide per quanto riguarda l’accettabilità pubblica e sociale da parte di agricoltori e cittadini, e, allo stesso tempo, spingono verso un maggiore riduzionismo scientifico.
Il secondo fattore è anch’esso tecnologico e legato al primo, e riguarda l’intelligenza artificiale e i modelli predittivi. Questi, integrando flussi multipli di big data dalla genomica all’ambiente, si presentano come la nuova frontiera (leggi biologica sintetica) che ci permetterà di affrancarci dalla dimensione fisica del campo sperimentale.
Il terzo fattore è legato ai diritti di proprietà intellettuale e al crescente controllo delle imprese lungo le filiere, dal seme al piatto. La forzatura dell’uso del brevetto industriale per la protezione delle varietà vegetali attuata dall’Ufficio Brevetti Europeo (EPO) e l’uso del brevetto nel nuovo mondo della CRISPR mania delineano uno scenario sempre più proprietario che pone rischi alla stessa capacità innovativa del settore.
Il quarto fattore si deve alla riduzione dei finanziamenti per la ricerca pubblica e alla specializzazione estrema della professione nelle cattedre di genetica nelle università. Stiamo perdendo competenze e conoscenze, infatti, man mano che la genetica quantitativa o il miglioramento lasciano il passo alla biologica molecolare, riducendo, di conseguenza, il possibile ruolo che potrebbe svolgere il breeding pubblico.
L’ultimo fattore, complementare al quarto, vede la crescita della ricerca privata, i cui obiettivi sono dettati dal mercato, non riflettono i bisogni sociali o ambientali più ampi, e non considerano specie, agricoltori e ambienti definiti marginali.
Questo paradigma scientifico e politico trova esemplificazione nella nuova piattaforma tecnologica europea Plants for the Future ETP (Plant ETP), una rete che comprende scienziati, agricoltori, aziende e istituzioni, e che vede insieme i sementieri (Euroseeds), gli agricoltori (Copa-cogeca) e le principali università. Anche se si presenta come un luogo neutrale e scientifico, nasce con l’idea di facilitare l’accettazione delle nuove tecnologie genetiche, per evitare gli errori di comunicazione commessi con l’introduzione degli OGM venti anni fa. Purtroppo, la politica della ricerca sta sostenendo e favorendo questo sviluppo, fidandosi ciecamente delle potenzialità, raccontate ma non provate, delle nuove tecnologie. Nessun piano B in caso ci fossimo sbagliati. Sarebbe, al contrario, fondamentale sostenere altri modelli di ricerca in un ecosistema diversificato e rivolto a diversi modelli agricoli. Infatti, un’altra opzione ci sarebbe e sta emergendo come una nuova narrativa nel settore della ricerca agricola che mette in discussione l’attuale paradigma. Vediamone i punti essenziali.
Il miglioramento genetico partecipativo e decentralizzato, attraverso il coinvolgimento di un maggior numero di attori nel processo e la realizzazione delle prove in condizioni reali (direct selection), offre un’opportunità unica per affrontare alcune delle sfide future, come i cambiamenti climatici , la perdita di biodiversità e la transizione agroecologica.
Il nuovo modello di business nella produzione delle sementi deve avere come obiettivo lo sviluppo di materiali diversi adattati a diversi ambienti
I sistemi agricoli alternativi (ad es. biologico o agroecologia) richiedono sforzi di miglioramento genetico dedicati, basati su varietà diversificate (ad esempio varietà biologiche o materiali eterogenei biologici) che differiscono sostanzialmente dai criteri di uniformità delle varietà moderne. È richiesto un cambiamento del modello di business della selezione e della commercializzazione delle sementi, poiché l’obiettivo è sviluppare materiali diversi adattati a diversi ambienti: ciò renderà impossibile recuperare i costi della ricerca tramite royalties. Le orphan crops e le specie trascurate o sottoutilizzate stanno tornando a occupare un ruolo centrale in agricoltura, sia per la loro capacità di essere coltivate in ambienti marginali sia per il loro valore nutrizionale e culturale. Ad oggi sono state dimenticate dalla ricerca. La conservazione dell’agrobiodiversità è un obiettivo della Politica Agricola Comunitaria, integrato anche nella nuova proposta della Commissione sulla commercializzazione delle sementi. Il miglioramento genetico dovrà adeguarsi di conseguenza lavorando per aumentare la diversità e non avere come obiettivo l’uniformità. In questo modo potrebbe rispondere, anche, all’urgenza di allargare la base genetica delle colture, ridotta da anni di miglioramento genetico rivolto all’uniformità e dalla pratica di usare sempre di più materiale migliorato nel processo di selezione. Questa agenda alternativa potrebbe essere sostenuta e promossa dalle politiche pubbliche sulla ricerca agricola, in modo complementare a quella tecnologica. Così facendo il miglioramento potrebbe includere nuovi obiettivi, che vadano ben oltre resa, prestazioni e resistenza, e nuovi ambienti, le aree marginali finora dimenticate sia dalla ricerca pubblica che privata, aprendosi a collaborazioni interdisciplinari e transdisciplinari, per ricostruire un nuovo quadro epistemico in particolare con gli studi filosofici e sociali della scienza, al fine di esplorare potenziali alternative.
Scopri come l’Italia può costruire un futuro agroecologico per la sua agricoltura
l progetto “Dialogo Strategico per la Transizione Ecologica dei Sistemi Agroalimentari” sostenuto da Fondazione Cariplo, nasce per rispondere alle controversie generate dal Green Deal europeo, spesso visto con scetticismo dal mondo agricolo italiano. Dopo il Dialogo Strategico avviato dalla Commissione Europea nel 2024, anche in Italia si vuole promuovere un confronto inclusivo per trovare una sintesi tra sviluppo rurale, sostenibilità ambientale, economica e sociale. L’obiettivo è creare un’ampia alleanza tra agricoltori, istituzioni, imprese e società civile per elaborare una visione condivisa basata sui principi dell’agroecologia della FAO. Il progetto prevede incontri facilitati da esperti, per produrre un documento finale che vuole contribuire a indirizzare le future politiche nazionali ed europee.
Gli incontri via web passati: – 28/07/2025: Co-creazione e condivisione della conoscenza nei sistemi agroalimentari; – 16/09/2025: Cicli delle risorse;
Prossimi incontri on line: – 14/10/2025: Biodiversità; – 11/11/2025: Consumo individuale e collettivo; – 16/12/2025: Lavoro e condizionalita’ sociale.
A questi incontri seguiranno due incontri in presenza: – 13/02/2026 a Milano: presentazione finale del manifesto e dialogo conclusivo;
– Aprile 2026 a Roma: presentazione del manifesto strategico prodotto alle Istituzioni.
Vuoi far parte di questo cambiamento? Partecipa anche tu iscrivendoti sulla pagina web: https://rsr.bio/dialogo-strategico/ e contribuisci a disegnare un’agricoltura più resiliente, giusta e innovativa per i sistemi alimentari di domani.
La formazione in agroecologia Coltivare Gaia è un’ iniziativa di Mondeggi Bene Comune e Rete Semi Rurali e realizzata con il patrocinio di Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie, Alimentari, Ambientali e Forestali dell’Università di Firenze. Vi hanno preso parte 42 persone selezionate in base a lettera di motivazioni e curriculum. Il percorso formativo si è sviluppato in otto fine settimana con un programma distribuito tra lezioni di scienze sociali e scienze applicate. Coltivare Gaia nasce con l’intento di essere complementare a Scuola Contadina di Mondeggi Bene Comune. Se quest’ultima offre occasioni di formazione pratica, con incontri che si svolgono quasi sempre in campo, Coltivare Gaia ha offerto lezioni teoriche e di ricerca applicata. Crediamo che la trasformazione agroecologica richieda un approccio intersezionale agli spazi e alle comunità di pratiche. Coltivare Gaia evolvendo insieme con partecipanti e docenti è divenuto uno spazio di sperimentazione sull’intreccio tra differenti discipline di studio: dall’ecologia politica alla microbiologia del suolo, dall’antropologia musicale alla facilitazione di gruppi. Nel corso dell’anno la classe ha adottato un filare di vigna presso Mondeggi Bene Comune e partecipato a visite pratiche non inserite nel programma del corso dedicate alla fertilità del suolo in orticoltura agroecologica. Le attività del progetto si concluderanno con un incontro pubblico sulle problematiche legate al riconoscimento dell’agroecologia come approccio alla produzione, non solo agroalimentare.
Un podcast di cinque puntate è in lavorazione e la sua uscita è prevista a gennaio 2026. Il 2026 riparte la Scuola contadina di Mondeggi. Con Coltivare Gaia l’appuntamento è per il 2027 con una nuova offerta formativa orientata a rafforzare gli strumenti per la trasformazione agroecologica.
Coltivare Gaia è finanziato da Agenda Ecologia di Unione Buddista Italiana
La ricerca agricola europea si trova oggi dinanzi a un bivio che non riguarda soltanto le tecniche disponibili, ma il quadro di riferimento epistemologico entro cui la conoscenza viene prodotta, valutata e legittimata.
Ogni tradizione scientifica si regge su un insieme di assunzioni condivise, i paradigmi, che definiscono non solo le domande di ricerca considerate legittime, ma anche i criteri con cui si giudicano i risultati. Nel corso del Novecento il paradigma dominante nel miglioramento genetico vegetale ha orientato metodi, obiettivi di ricerca, investimenti e istituzioni verso la standardizzazione varietale e l’uniformità dei processi. Questo modello, durante la Rivoluzione Verde, ha portato a incrementi produttivi rilevanti ma ha anche determinato una drastica riduzione dell’agrobiodiversità, compromettendo la resilienza e la stabilità dei sistemi agricoli dinanzi agli stress climatici. La ricerca che lo ha sostenuto era centralizzata: le varietà venivano sviluppate nelle stazioni sperimentali, in ambienti controllati e uniformi, con input elevati di fertilizzanti, acqua e pesticidi. Una volta completato il ciclo di selezione, il risultato veniva sottoposto agli agricoltori, considerati principalmente utilizzatori finali e non interlocutori all’interno del processo. Questa distanza tra gli ambienti di selezione e i diversi contesti reali di coltivazione ha prodotto varietà inadatte a sistemi colturali a bassa intensità di input esterno e a quelli situati in contesti pedoclimatici marginali dove le condizioni standardizzate delle stazioni sperimentali non sono riproducibili.
Il limite di questo modello non è soltanto tecnico, ma epistemologico: l’idea che la validità della ricerca coincida con la capacità di standardizzare condizioni e risultati ha escluso come “non scientifiche” molte altre forme di conoscenza e di valutazione, in particolare quelle relative ai saperi indigeni e contadini. L’imposizione di un unico regime di validazione ha dato forma a quella che Santos chiama “monocultura della conoscenza”: un dispositivo che non solo marginalizza i saperi locali ma li espropria della loro capacità di definire criteri di verità e di valore, inscrivendoli in una posizione di subalternità epistemica. La crisi dell’attuale paradigma non dipende quindi soltanto dai suoi limiti produttivi, ma anche dalla sua incapacità di rendere conto della complessità ecologica e sociale in cui l’agricoltura è immersa.
Negli ultimi decenni, accanto al modello dominante del miglioramento genetico vegetale, centrato su varietà uniformi e sperimentazioni standardizzate, si sono sviluppate pratiche di ricerca che operano secondo logiche differenti. Tra queste, nel miglioramento genetico partecipativo (ParticipatoryPlantBreeding, PPB), i criteri di validazione non sono ancorati all’omogeneità dei contesti di prova, ma alla capacità di riflettere e integrare la diversità ecologica, sociale e culturale dei sistemi colturali. La specificità epistemica del PPB risiede nella sua dimensione partecipativa e decentralizzata, che rappresenta una rottura rispetto al paradigma convenzionale del miglioramento genetico, storicamente basato sulla centralizzazione della ricerca nelle stazioni sperimentali e sulla standardizzazione degli ambienti di prova. Nel PPB, invece, la selezione e la valutazione delle varietà avvengono direttamente nei campi degli agricoltori, negli stessi ambienti in cui le varietà saranno coltivate. I criteri di selezione dell’agricoltore potranno quindi variare da quelli del ricercatore e sono spesso diversi da quelli degli agricoltori in altre aree con condizioni e obiettivi produttivi diversi.
La biodiversità agricola non è solo un insieme di tratti genetici o fenotipici, ma va concepita come una realtà bioculturale, generata dall’intreccio storico tra processi ecologici e sistemi di sapere.
In questo modo, il miglioramento genetico partecipativo ridefinisce le condizioni di validazione della conoscenza, riconoscendo i saperi locali come componenti fondamentali dei criteri di selezione, e aprendo la ricerca a forme pluraliste e localizzate, capaci di cogliere le interdipendenze socio-ambientali in gioco. In altre parole, queste conoscenze vengono riconosciute come prospettive capaci di individuare e definire le caratteristiche rilevanti in una varietà e di stabilire come vada inteso un risultato significativo all’interno del percorso di miglioramento vegetale. In questa prospettiva la biodiversità agricola non può essere concepita unicamente come insieme di tratti genetici o fenotipici, ma come una realtà bioculturale, generata dall’intreccio storico tra processi ecologici e sistemi di sapere.
Perché questi approcci partecipativi possano funzionare efficacemente, è necessario che si collochino entro strutture organizzative adeguate che facilitino l’incontro e la collaborazione tra attori diversi. Le comunità di pratica (communities of practice, CoP) rappresentano una forma organizzativa che può rendere possibile questo coordinamento. Le CoP sono luoghi di apprendimento collettivo e multi-attore, in cui agricoltori, ricercatori, tecnici e cittadini costruiscono insieme percorsi di conoscenza e validazione. Funzionano come luoghi di negoziazione istituzionale: mettono in discussione norme consolidate e aprono spazi per modelli di governance più inclusivi. La loro efficacia dipende dalla capacità di promuovere un coordinamento più stretto tra attori pubblici e privati, sviluppando strategie di finanziamento che sostengano approcci transdisciplinari a lungo termine.
Il successo della transizione agroecologica dipenderà quindi dalla capacità di costruire un ecosistema di ricerca che assuma la pluralità dei saperi come condizione di rigore. Ciò implica investire nella formazione di ricercatori capaci di lavorare nell’intersezione tra ecologia, agronomia, economia e scienze sociali, in grado di facilitare processi partecipativi e comprendere le dinamiche socio-ecologiche. Ma implica anche riconoscere che la produzione di conoscenza non è mai neutra: è un processo politico ed epistemico, in cui si decide non soltanto quali varietà coltiveremo, ma quali futuri agricoli e sociali riteniamo desiderabili.
Non è vero che il modello agricolo intensivo permette di coltivare meno terra e produrre più cibo. Continuare a ripeterlo chiude a confronti più profondi e orientati.
a cura di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 285 – Ottobre2025
A luglio 2025 la rivista marxista americana Spectre ha pubblicato un interessante articolo dal titolo “La persistente fantasia di ‘sfamare il mondo’”. Si tratta di una risposta a un editoriale del New York Times di dicembre 2024 che in maniera provocatoria afferma: “Che piaccia o no, questo è il futuro del cibo”. L’autore Michael Grunwald propone la classica narrazione: definire “l’agricoltura industriale” come “cattiva” non riconosce che questo modello è quello che ci sfama e che impedisce all’umanità di mangiarsi il Pianeta. Quindi secondo lui gli allarmisti devono capire che “l’agricoltura industriale ha un vero vantaggio: produce enormi quantità di cibo su porzioni relativamente modeste di terra. E questo sarà il compito più vitale dell’agricoltura nei prossimi decenni. Entro il 2050 il mondo avrà bisogno di disponibilità ancora più enormi di cibo, circa il 50% in più di calorie per nutrire adeguatamente quasi dieci miliardi di persone”. Inoltre aggiunge che “gli allevamenti intensivi sono la migliore speranza per produrre il cibo di cui avremo bisogno senza distruggere ciò che resta dei nostri tesori naturali e senza rilasciare nell’atmosfera il loro carbonio”. Il solito ritornello che difende lo status quo e bolla qualsiasi trasformazione come naif o non basata sulla scienza, con in più un tocco ambientale: il modello industriale ci permetterà di coltivare meno terra che quindi resterà “naturale”. Un sillogismo che ritroviamo ripreso e raccontato dal mondo dell’agrobusiness, come dimostra il Rapporto ambientale, sociale e di governance di Syngenta del 2022 in cui si legge che “ridurre la quantità di terra arabile necessaria per unità di coltura è la chiave per nutrire una popolazione in crescita. I guadagni di produttività permettono di lasciare la terra incontaminata esistente nel suo stato naturale”. Come rispondere a questo paradigma produttivista che riconduce il problema agricolo a maggiore produzione con colture e cibo più economici? Alcune indicazioni le propone l’articolo di Spectre che sottolinea come non esista un “ventre globale” -un anonimo magazzino di cereali- dove immettere calorie e non ci sia una semplice correlazione tra resa e sicurezza alimentare. L’accesso al cibo è regolato da diverse politiche di distribuzione legate a fattori sociali, economici, politici e istituzionali
118 Gli studi su cui si fonda una recente meta-analisi che mette a confronto 51 Paesi e dimostra come, contrariamente alla credenza comune, le rese sono più elevate nelle piccole aziende agricole rispetto alle grandi.
Inoltre il problema della resa andrebbe disaggregato per gli ambienti in cui il cibo si produce, andando a vedere dove oggi è possibile aumentarla e con quali tecnologie. Mi spiego: in Pianura padana il mais industriale ha raggiunto un picco di produttività difficilmente migliorabile, per quanti sforzi si possano immaginare, con un costo ambientale ormai insostenibile. Al contrario la produttività della coltura di mais in collina avrebbe margini di miglioramento, ma non c’è nessuna ricerca -pubblica o privata- che lavori per questi ambienti. Né le nuove tecnologie all’orizzonte sono progettate per funzionare in questi contesti. Andrebbe ripensata la ricerca agricola, andando a lavorare in quelle aree marginali, finora dimenticate, in cui ci sono effettive possibilità di miglioramento. Purtroppo un sistema simile non è conveniente per il mercato né per il sistema di distribuzione incentrato sulla grande distribuzione organizzata. Inoltre l’unico soggetto che potrebbe avere un ruolo, la ricerca pubblica, è sempre meno finanziato e culturalmente succube del modello privato, come dimostra la fede cieca nella tecnologia di cui i nuovi Ogm sono solo l’ultima moda. Abbandonare la narrazione “dobbiamo sfamare il mondo” potrebbe aprire lo spazio a confronti più profondi orientati a pensare sistemi agricoli diversificati, in grado di coniugare valori ambientali, culturali e politici. Purtroppo la strada da fare è ancora lunga.