da Manuele Bartolini | Lug 9, 2024 | Articoli, Seminare il cambiamento
Valorizzazione economica delle popolazioni evolutive in Toscana
di Claudio Pozzi – Rete Semi Rurali
L’occasione è scaturita dai Progetti Europei per l’Innovazione che, attraverso le misure 16.1 e 16.2 del PSR, ci hanno permesso di costituire il Gruppo Operativo “Cereali Resilienti” in Toscana nel 2017 e di sostenerne le attività fino ad oggi.
Il lavoro di diffusione e studio della popolazione evolutiva di frumento tenero arrivata in Italia nel 2010 dall’Istituto Icarda di Aleppo – grazie al progetto SOLIBAM – era in fase avanzata e c’erano tutti i presupposti per consolidarne la diffusione sul territorio toscano.
L’idea iniziale nell’introdurre la popolazione era di dotare gli agricoltori di autonomia selezionando al suo interno piante ben adattate ai diversi contesti pedoclimatico e ai metodi di coltivazione. Ben presto è diventato chiaro che quella “banca del seme” poteva essere preziosa di per sé come oggetto di coltivazione in pieno campo e di successiva trasformazione. L’incommensurabile diversità genetica evoluta nel tempo può infatti garantire agli agricoltori un miglioramento e, cosa ancor più interessante, una stabilizzazione delle rese rispetto a quanto osservato nella coltivazione delle varietà locali in purezza o in miscuglio.
L’idea di Cereali Resilienti era di confermare la sostanziale differenza della popolazione adattata in Sicilia rispetto a quella adattata in Toscana e verificare se vi fosse la stessa capacità di adattamento ad ambienti differenti di un territorio più limitato come quello toscano.
La Azienda agricola Floriddia di Peccioli aveva nel frattempo acquisito le competenze e la strumentazione per poter produrre e vendere semente ad altri agricoltori utilizzando la deroga concessa in via sperimentale dalla Commissione Europea. La disponibilità di semente era all’inizio ridotta ma è stato comunque possibile, una volta individuati gli areali climatici principali, scegliere quattro “aziende madri” – una per ogni areale – che facessero ognuna da riferimento per almeno altre quattro aziende “figlie”.
Oggi che il percorso di adattamento nei quattro areali regionali è a buon punto e che siamo in grado di monitorarne gli effetti da un punto di vista agronomico e nutraceutico (attraverso esami di laboratorio), la terza fase del progetto ci porta a indagare il gradimento dei prodotti e l’approccio comunicativo da adottare per una buona comprensione del processo agro-ecologico che sottende al progetto stesso. Se l’idea è quella di costruire comunità intorno al seme è infatti necessario che la comunità locale possa comprendere appieno i vantaggi che derivano dalla trasformazione delle pratiche colturali e delle relazioni fra i soggetti che sono protagonisti della filiera dal seme al cibo.
Il lavoro in atto negli incontri locali, incentrato sulla degustazione dei prodotti da popolazione evolutiva, paragonati a prodotti di buona qualità ma da farine convenzionali, porta a coinvolgere i presenti sia nella valutazione del gradimento che nella partecipazione critica e propositiva al linguaggio comunicativo. È questo l’aspetto su cui si incontrano maggiori difficoltà. Trovare soluzioni non banali, che colpiscano la curiosità e stimolino l’attenzione del pubblico senza scadere in un approccio da slogan pubblicitario non è affatto semplice.
Numerose sono state le ore trascorse a cercare soluzioni che ci appaiono brillanti e sofisticate per poi essere rapidamente demolite alla prima uscita pubblica. È un percorso stimolante, funzionale al consolidamento del rapporto di fiducia fra gli attori della filiera, oggi chiamati a esprimersi su contenuti e forme della comunicazione che riguardano non solo un prodotto ma l’intero processo.
La scelta di un logo, il progetto di un’etichetta, divengono momenti di crescita della comunità che si riconosce nel valore della partecipazione e percepisce la centralità della relazione come momento di garanzia per una consapevole transizione verso nuovi modelli di gestione del benessere comune.
da Manuele Bartolini | Lug 9, 2024 | Articoli, Notiziari, Seminare il cambiamento
il Gruppo Operativo Mixwheat
di Paolo Caruso – Rete Semi Rurali
Il progetto Mixwheat – Miscuglio evolutivo di frumento per l’adattamento ai cambiamenti climatici, inserito nella sottomisura 16.1 del PSR Sicilia 2014-2020, è nato per offrire una soluzione alla fragilità dei sistemi agricoli siciliani, tipicamente a clima semiarido e interessati da una progressiva riduzione delle precipitazioni e contemporaneo aumento delle temperature.
L’adattamento locale delle specie agrarie è considerato un fattore chiave per modulare la gravità degli impatti futuri dei cambiamenti climatici sulla produzione agroalimentare, dal momento che gli attuali sistemi agricoli monocolturali mal si prestano a fronteggiarli.
Tutte queste premesse, sommate alla vocazione cerealicola della Sicilia, all’esigenza di incrementare l’agrobiodiversità e alla necessità di dare vita a filiere complete, hanno indotto a sperimentare la popolazione evolutiva di grano tenero denominata “Furat tenero Li Rosi”, introdotta in Italia dal prof. Salvatore Ceccarelli, coltivata continuativamente in Sicilia dal 2010 e disponibile come semente certificata dal CREA-DC dal 2018.
Le popolazioni evolutive sono il risultato del miglioramento genetico evolutivo, una metodologia che ricolloca la ricerca dalle stazioni sperimentali alle aziende agricole, mantenendo lo stesso rigore scientifico, con lo scopo di adattare le piante all’ambiente senza che questo debba essere modificato. La popolazione Furat in origine contava su circa 2000 incroci.
Il progetto Mixwheat, della durata di tre anni, ha visto protagoniste l’Università di Catania (Di3A) e Rete Semi Rurali per gli aspetti scientifici. Per la parte agricola sono state coinvolte 5 aziende agricole siciliane, tutte operanti in regime di agricoltura biologica certificata, situate in differenti areali pedoclimatici. Ciascuna di esse, a partire dal secondo anno di progetto, è stata affiancata da aziende “satelliti” situate nello stesso territorio, per collaudare più compiutamente la popolazione. Al termine del progetto, l’innovazione di processo verrà gestita direttamente dagli agricoltori e diffusa con una licenza open source per garantirne il più ampio accesso.
La scelta di aziende certificate biologiche nasce dalla necessità di raggiungere uno degli obiettivi del progetto: incrementare la fertilità del suolo attraverso pratiche colturali ecosostenibili e a bassi input tali da permettere agli agricoltori di conseguire anche la riduzione dei costi di produzione ed il conseguente incremento del reddito aziendale.
La popolazione Furat, per le sue caratteristiche peculiari, necessita della creazione e dello sviluppo di filiere proprie, capaci di intercettare un pubblico attento alla sostenibilità e alla salubrità degli alimenti. La costruzione di specifiche filiere è una precondizione per l’introduzione e la coltivazione di questa tipologia di frumento.
Le aziende agricole coinvolte nel progetto hanno conferito la granella ottenuta al Molino Quaglia, anch’esso partner del progetto, in possesso di una metodologia di molitura innovativa che consente di ottenere un prodotto apprezzato da una vasta platea di valorizzatori di elevato standard.
Mixwheat è stato di ispirazione a due aziende agricole partner del progetto, provviste di un mulino a pietra di proprietà, per commercializzare le farine ottenute dalla popolazione, chiudendo in questo modo piccole filiere locali. Ci sembra quest’ultima notizia, un ottimo viatico per la diffusione ulteriore delle popolazioni evolutive.
da Manuele Bartolini | Lug 4, 2024 | Articoli, Collaborazioni redazionali, legislazione sementiera, Seminare il cambiamento
La nuova Politica agricola comune -affossata poco prima del voto- non discuteva il modello dominante, anzi. Riuscirà la nuova Ue a resistere alle lobby?
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 272 – Luglio 2024
Come abbiamo già raccontato in questa rubrica, l’agricoltura è uno dei temi centrali nel definire il futuro dell’Unione europea. La Politica agricola comune (Pac), non a caso, nel 2022 rappresentava un terzo del budget complessivo dell’Unione. Negli ultimi mesi, le manifestazioni dei trattori nei vari Paesi europei, le immagini della loro presenza a Bruxelles fuori dai luoghi del potere hanno polarizzato gli animi, alimentando un divario, del tutto strumentale, tra agricoltura e ambiente. E, ovviamente, tra portatori d’interesse dei rispettivi mondi.
Questo clima di conflitto, basato su una reale crisi di senso che vive tutto il mondo agricolo ancora senza soluzione, ha portato la Commissione e il Parlamento europeo a fare vari passi indietro rispetto ai target ambientali stabiliti nelle strategie “From farm to fork” e “Biodiversità”, e nella loro implementazione tramite la Pac.
Votando a favore di queste modifiche a fine mandato il Partito popolare europeo, con una parte del gruppo liberale Renew Europe e dei socialisti europei, ha cercato di placare le ire del mondo agricolo industriale a fini elettorali. Si è trattato di un tentativo mal riuscito a giudicare dal voto delle elezioni di giugno, che, però, ha acuito il conflitto tra agricoltura e ambiente, con il riconoscimento implicito che non si può prescindere dal modello industrialista sviluppato nel secondo dopoguerra.
Ma erano veramente così dirompenti (o ideologiche) le misure previste dalla Pac? In realtà, anche se nei suoi obiettivi figurava quello di promuovere “la transizione verso l’agricoltura sostenibile”, dando come esempi di sostenibilità “l’agricoltura biologica, la gestione integrata delle malattie, l’agroecologia, l’agroforestazione e l’agricoltura di precisione”, nessuno di questi era indicato come modello. Al contrario, avrebbero potuto servire da guida agli Stati membri per identificare gli obiettivi da raggiungere nei loro Piani strategici nazionali (Psn). Ricordiamo, infatti, che la nuova Pac era stata nazionalizzata dando agli Stati la possibilità di adattare le misure alle loro necessità attraverso i Psn.
A loro spettava, quindi, la responsabilità di tradurre in pratica la visione del Green Deal e gli obiettivi strategici della Pac, il tutto all’interno di una serie di indicatori in grado di misurare l’impatto degli strumenti adottati. Al di là di questo riferimento alla “transizione”, di cui non si definiva né una fine né un chiaro orizzonte, la nuova Pac, quindi, non ha mai messo in dubbio il modello dell’aiuto diretto a ettaro, che fa sì che lo 0,5% degli agricoltori prenda il 16,45% degli aiuti e non è intervenuta nel direzionare i soldi verso un altro modello produttivo, sostanzialmente lasciando inalterato il fatto che circa l’80% delle risorse finisca a supportare la produzione animale.
Lo 0,5% è la quota di agricoltori che con l’attuale Politica agricola comune europea si assicura in modo del tutto squilibrato il 16,45% degli aiuti diretti a ettaro
Inoltre queste misure sono in gran parte volontarie: in nessun modo l’Unione europea obbliga gli agricoltori a cambiare il proprio sistema aziendale. I famigerati ecoschemi, oggetto degli attacchi delle manifestazioni, rappresentano meno del 25% degli aiuti diretti ed erano, comunque, soggetti a interpretazione e applicazione da parte dei singoli Stati.
Insomma, la Pac non era rivoluzionaria né dirompente nei confronti del modello dominante. Gli attacchi sono stati ideologici e strumentali con il fine di rinforzare il peso delle lobby industriali a Bruxelles, in primis i sindacati agricoli, mettendo nero su bianco che senza di loro non si negozia. Il Parlamento appena votato e la futura maggioranza che darà vita alla Commissione dovranno lavorare su questo campo minato, cercando di svelenire il dibattito.
da Manuele Bartolini | Giu 14, 2024 | Articoli, Collaborazioni redazionali, legislazione sementiera, Seminare il cambiamento
La proposta di regolamento europeo sulle sementi disegna sistemi non più basati sul dogma dell’uniformità. Non dobbiamo averne paura.
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 271 – Giugno 2024
Il 24 aprile 2024 il Parlamento europeo ha chiuso il suo mandato con un’ultima votazione che ha approvato una serie di atti a tema agricolo, dalla semplificazione della Politica agricola comune, al regolamento sui nuovi Ogm, per finire con quello sulla commercializzazione delle sementi. In quest’ultimo caso, il Parlamento si è espresso sostanzialmente approvando la visione e l’impianto proposti dalla Commissione, apportando una serie di modifiche che risolvono positivamente alcune delle criticità contenute nel testo.
Ad esempio, le attività di accesso alle sementi conservate nelle banche del germoplasma, ma anche nelle case delle sementi, sono state messe fuori dal campo di azione della normativa; come anche, finalmente, tutte le attività di scambio tra hobbisti. Lo scambio dei semi tra agricoltori, invece, ha per la prima volta un articolo dedicato per consentirlo a livello locale. Inoltre, alle organizzazioni non profit che lavorano per la conservazione dell’agrobiodiversità sarà permesso di vendere sementi di varietà non iscritte.
Queste sono solo alcune delle novità più eclatanti contenute nel testo. Il quadro che emerge dalla lettura del regolamento approvato dal Parlamento è quello di una normativa che non ha più un sistema unico e una tipologia unica di varietà: le classiche varietà distinte, uniformi e stabili (Dus), prodotte dalle ditte sementiere, certificate (controllate per qualità) e quindi messe sul mercato. Al contrario, il panorama si presenta articolato e differenziato, in funzione degli operatori, dei mercati, degli attori coinvolti e del tipo di varietà. Anche il sistema di controllo, pubblico o fatto dagli stessi operatori sotto sorveglianza pubblica, sarà legato a queste variabili.
Insomma, sembra che il lavoro fatto in questi anni a livello europeo da realtà come Arche Noah, Rete Semi Rurali e Pro Specie Rara, per citarne alcune, abbia dato i suoi frutti. Non è un caso che tra gli obiettivi del nuovo regolamento si trovi anche la conservazione dell’agrobiodiversità, la sua gestione dinamica da parte degli agricoltori e che il concetto di varietà da conservazione (fino ad oggi relegato alle vecchie varietà o a quelle locali) venga allargato fino a includere nuove varietà sviluppate con il miglioramento genetico partecipativo per adattamento a condizioni particolari.
Dus. Varietà distinte, uniformi e stabili. Il nuovo regolamento europeo sulla commercializzazione delle sementi supera il sistema unico delle varietà. È una buona notizia
Ovviamente una tale diversità di opzioni può spaventare chi finora ha lavorato nell’uniformità, seguendo l’approccio “one size fits all”. Infatti, il comunicato stampa della federazione Euroseeds (ne fanno parte tra gli altri Bayer, Corteva, Syngenta), uscito dopo il voto parlamentare, paventa la distruzione del sistema sementiero convenzionale, che, ricordano, “rappresenta il 95% della semente prodotta in Europa”. Dal loro punto di vista i parlamentari europei si sarebbero fatti abbagliare dai discorsi del mondo alternativo che ha presentato la questione come una battaglia di Davide contro Golia, cioè il piccolo agricoltore contro la grande e cattiva multinazionale. E, messi di fronte a questa scelta, scrive Euroseeds, i parlamentari hanno compiuto la scelta sbagliata. In realtà, il tema è più complesso. Se di sicuro la retorica contro i monopoli sementieri ha avuto un ruolo nell’indirizzare il dibattito, la reale novità del regolamento è aver concepito un approccio pluralistico che non indirizza i sistemi sementieri verso un unico orizzonte: il modello uniforme industriale. La proposta cerca di trovare uno spazio legale per la diversità e la sua gestione dinamica nelle aziende agricole. Poco importa se, come sostiene Euroseeds, questi approcci, ad oggi, siano molto marginali. Si tratta di gettare i semi per un’agricoltura del futuro, in cui la parola d’ordine sia diversificazione: delle varietà, delle colture coltivate, dei paesaggi e, in ultimo, dei sistemi alimentari e delle diete. Non dobbiamo aver paura di affrontare questa sfida.
da Manuele Bartolini | Mag 29, 2024 | Articoli, Notiziari, Seminare il cambiamento
di Johanna Eckhardt – No Patents on Seeds
La legge Europea sui brevetti ne vieta l’uso su varietà vegetali e razze animali e sui metodi di miglioramento genetico convenzionali: un brevetto può essere concesso soltanto se un carattere viene inserito nel genoma attraverso tecniche di ingegneria genetica.
Tuttavia, nonostante i richiami da parte dell’UE, negli ultimi 10 anni l’Ufficio europeo dei brevetti (EPO) ha concesso circa 200 brevetti su metodi di miglioramento convenzionali. Tali brevetti riguardano ormai oltre 1.000 varietà di piante selezionate in modo convenzionale. Il numero crescente di brevetti concessi in questo modo e la conseguente incertezza giuridica minacciano il miglioramento genetico delle piante, compreso quello portato avanti dagli agricoltori, nonché la sovranità alimentare europea. L’UE deve fermare questa tendenza e garantire che le leggi europee siano interpretate correttamente. La diversità biologica deve continuare a essere disponibile per il miglioramento genetico futuro!
Fin dall’introduzione della Direttiva 98/44/CE, in Europa sono stati concessi migliaia di brevetti su piante e animali geneticamente modificati. L’EPO, un’organizzazione indipendente dall’UE, ha adottato questa normativa comunitaria, che è quindi diventata effettiva nei suoi 39 stati aderenti. Con l’introduzione delle nuove tecniche genomiche (NGT), il numero di brevetti è in drastico aumento, con le grandi multinazionali (Corteva – ex DowDupont e Bayer, tra le altre) in testa alla corsa. Le ditte sementiere europee di minori dimensioni che desiderano utilizzare le nuove tecnologie sono pertanto costrette a firmare contratti con aziende più grandi e a dipendere da loro.
Come già in passato, anche nel caso delle NGT, la portata dei brevetti non si limita alle piante geneticamente modificate, ma spesso include rivendicazioni sulle modifiche genetiche stesse, anche quando queste sono il risultato di una mutazione casuale: per esempio, sono stati concessi brevetti alla ditta sementiera KWS su mais ottenuto da miglioramento genetico tradizionale e poi “reingegnerizzato” con CRISPR/Cas.
È di somma importanza, invece, mantenere l’indipendenza del miglioramento genetico in Europa: l’accesso alla diversità biologica non deve essere controllato o bloccato, soprattutto di fronte ai cambiamenti climatici e all’erosione della biodiversità. I brevetti su processi di semplice incrocio e selezione, su variazioni genetiche naturali o risultanti da mutagenesi casuale devono essere vietati. Deve essere vietata anche l’estensione delle rivendicazioni contenute nei brevetti a piante e animali con caratteri simili a quelli brevettati ma ottenuti con metodi convenzionali.
Il Parlamento europeo e gli Stati membri sono consapevoli di questo problema. Ma è soprattutto l’ EPO, tramite il suo Consiglio di amministrazione (che si riunisce quattro volte l’anno) a dover interpretare correttamente la legge. A livello nazionale, gli stati membri potrebbero adeguare la loro legislazione, inviando un forte segnale politico. In Austria, per esempio, la legge nazionale sui brevetti è stata rivista nel 2023, limitandone strettamente l’applicazione alle sole sementi geneticamente modificate.
Per quanto riguarda la riforma in corso sulle NGT, è stato proposto che l’UE potrebbe vietarne la brevettabilità. Con questa mossa si dà l’impressione che le piante NGT, in quanto deregolamentate, non potranno più essere brevettate. Tuttavia, la (de)regolamentazione delle NGT non ha nulla a che fare con la legge sui brevetti. Le piante NGT restano brevettabili nell’UE, anche qualora non dovessero essere più sottoposte alla valutazione del rischio: verrebbero escluse dalla brevettabilità solo allorquando i 39 membri dell’EPO si accordassero all’unanimità per modificare le leggi esistenti. Ma questa strada è bloccata dall’industria, dalle lobby e da diversi stati membri stessi.
Non si tratta insomma di cambiare le leggi, ma di interpretare correttamente i divieti esistenti. Sarebbe sufficiente una maggioranza di tre quarti dei voti in seno al Consiglio dell’EPO; l’UE potrebbe già portare circa 27 dei 30 voti necessari per una maggioranza. Una tale iniziativa per vietare i brevetti sulla riproduzione convenzionale sarebbe estremamente urgente: se non ci sarà un’interpretazione chiara e giuridicamente sicura, le multinazionali saranno presto in grado di controllare tutte le sementi – prodotte con o senza ingegneria genetica.
La campagna di NO PATENTS ON SEEDS! manda un messaggio alla Commissione Europea e chiedi che si mobiliti! https://www.no-patents-on-seeds.org/en/campaign
da Manuele Bartolini | Mag 29, 2024 | Articoli, Notiziari, Seminare il cambiamento
La proposta per la deregolamentazione delle piante ottenute da NGT di categoria 1 si basa sul presupposto della loro equivalenza con le piante ottenute dal miglioramento convenzionale. Per valutare questa equivalenza, nell’Allegato 1 la proposta delinea una serie di criteri, basati essenzialmente su dimensione, numero o tipo di mutazioni a carico del DNA.
L’ANSES, Agenzia francese per l’Alimentazione, la Salute, la Sicurezza Ambientale e sul Lavoro, ha chiesto al suo gruppo di lavoro sulle biotecnologie di esaminare la base scientifica di questi criteri. Secondo il rapporto che ne è uscito, questi criteri hanno diverse limitazioni. Prima di tutto, la terminologia non è sempre univoca: mancano definizioni chiare di termini importanti come “sito bersaglio” o “piante convenzionali” con le quali comparare le piante NGT. Ma il punto critico più importante è la debolezza, dal punto di vista scientifico, del basare l’equivalenza tra piante NGT e convenzionali esclusivamente su dimensione o numero delle modifiche al DNA.
Difatti, la proposta stabilisce una soglia massima di 20 mutazioni, entro la quale una pianta NTG è considerata equivalente a una pianta convenzionale. Secondo il rapporto ANSES sarebbe prima di tutto più corretto che tale soglia fosse correlata con la dimensione del genoma delle diverse specie piuttosto che essere fissata in termini assoluti. Inoltre, la scelta di tale numero è stato giustificato confrontandolo con il numero di mutazioni potenzialmente ottenibili tramite mutagenesi casuale (una tecnica non NGT) con cui, dice il documento tecnico che accompagna la proposta legislativa, si possono ottenere tra le 30 e 100 mutazioni. Tuttavia, dicono gli esperti ANSES, il confronto con la mutagenesi casuale non è molto pertinente in quanto il numero di mutazioni ottenute con questa tecnica varia in base all’intensità del trattamento mutageno; inoltre, le mutazioni casuali indesiderate vengono poi eliminate dal processo di selezione successivo, cosa che non necessariamente accade a seguito di una mutagenesi mirata tramite NGT. Ancora a proposito di mutazioni indesiderate, queste verrebbero conteggiate tra le 20 modifiche accettabili, senza nessuna considerazione dei potenziali effetti negativi in termini funzionali o biologici. Basare il ragionamento sull’equivalenza su una semplice analisi molecolare della presenza di un certo numero di mutazioni, in qualsiasi punto del genoma esse avvengano, perde completamente di vista la questione del rischio per la pianta, l’ambiente o la salute.
Il gruppo di lavoro raccomanda pertanto di riformulare i criteri di equivalenza, adottando una prospettiva più ampia e meno riduttiva, che tenga conto di più variabili e di tutti i possibili rischi.