Convegno finale BREED4BIO

Convegno finale BREED4BIO

Giovedì 1° giugno si è tenuto il convegno finale del progetto Breed4Bio. Durante la mattinata, presso la sede della Regione Emilia-Romagna a Bologna, i partner del progetto hanno relazionato circa obiettivi, finalità e risultati delle attività svolte. Per l’occasione, la sala si è riempita di esperti e appassionati del settore che hanno voluto conoscere i risultati del progetto.

Dopo una introduzione sull’innovazione, la formazione e la consulenza per il settore agricolo ed agroalimentare dell’Emilia Romagna tenutasi dal funzionario regionale, sono stati affrontati temi relativi alla normativa vigente in materia di popolazione evolutive e presentati i risultati delle diverse attività progettuali ed esperti del settore hanno reso possibile una interessante tavola rotonda con i protagonisti delle filiere di popolazioni di frumento.

A questo link è possibile vedere la registrazione della conferenza: https://youtu.be/_zityXVz4o4

Nel pomeriggio l’evento è proseguito ai campi sperimentali di popolazioni evolutive del CREA Difesa e Certificazione nella località di Budrio, presso l’azienda sperimentale Bagnaresa. Dopo un’introduzione a cura del CREA-DC, gli interessati hanno potuto vedere e valutare le parcelle sperimentali.

Ottimi pani prodotti a partire da farine ottenute da grani coltivati nell’ambito del progetto sono stati offerti al pubblico e prodotti dal Forno Calzolari.


La corsa verso i “nuovi Ogm” porta indietro le lancette della scienza

La corsa verso i “nuovi Ogm” porta indietro le lancette della scienza

In attesa della proposta legislativa della Commissione europea, in Parlamento si stanno discutendo tre proposte di legge in materia.

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 260 – Giugno 2023

Si sta consumando un duro e serrato confronto sul futuro della ricerca agricola italiana che ha come oggetto le Tecniche di evoluzione assistita (Tea) o nuovi Ogm, a seconda dei punti di vista. A livello comunitario siamo in attesa della proposta legislativa della Commissione europea, che avrebbe dovuto vedere la luce ai primi di giugno ed è stata rimandata perché il testo non è ancora pronto; o meglio non c’è accordo politico sulla visione di fondo. In attesa del verdetto europeo il legislatore italiano si sta muovendo alacremente con ben tre proposte di legge in discussione al Parlamento e, addirittura, una norma ad hoc nel decreto sull’emergenza siccità, per facilitare la coltivazione in campo aperto di piante prodotte con tecniche di mutagenesi sito-diretta e cisgenesi (Tea) per ricerca e sperimentazione. Come se i problemi dell’agricoltura italiana si risolvessero di colpo grazie all’uso di questa tecnologia miracolosa.

L’oggetto del contendere è decidere se queste piante debbano seguire o meno lo stesso iter autorizzativo degli Ogm, arrivando in ultima analisi a deregolamentare il settore considerandole assimilabili alle varietà tradizionali. Bisogna ricordarsi che la messa in commercio e la possibilità di fare sperimentazione in campo di varietà geneticamente modificate sono disciplinate dalla direttiva 2001/18 con un approccio restrittivo basato su valutazione caso per caso, produzione di dossier specifici per ogni pianta, tracciabilità di tutto il processo, fino all’etichettatura dei prodotti. A oggi le Tea sono assimilate agli Ogm, anche in seguito a due decisioni della Corte di giustizia europea.

Qual è, quindi, la fretta che consiglia i parlamentari italiani a legiferare su una materia così scivolosa, senza attendere il procedimento di armonizzazione europeo? L’unica spiegazione è che sulle Tea si stia giocando una battaglia puramente ideologica, come se il mondo della ricerca volesse consumare una sorta di rivincita “scientifica” rispetto a quanto vissuto al tempo degli Ogm.

A quel tempo -questa è la narrazione- le posizioni anti-scientifiche dei cittadini e delle associazioni ambientaliste sono riuscite a fare breccia nella politica, che non ha ascoltato le voci esperte della scienza. Oggi, questo non deve succedere indipendentemente dalla reale necessità di usare queste tecnologie. Deve passare il principio che la scienza è neutrale e superiore ai dibattiti politici e sociali. È questo il vero oggetto del contendere. Fate attenzione al linguaggio usato per descrivere le Tea: accuratezza, precisione, velocità, con un occhio ai cambiamenti climatici (resistenza alla siccità), alla sostenibilità (la tolleranza agli insetti) e ovviamente al made in Italy, attraverso la correzione dei difetti presenti nelle varietà locali. Come opporsi a questo ben di dio? In parte è una retorica già vista al tempo degli Ogm, quando la scienza parlava di prima, seconda e terza generazione, di cui solo la prima è diventata realtà.

Un articolo pubblicato su Nature Food nel gennaio 2023 (“Reframing the local-global food systems debate through a resilience lens”) mette proprio la diversità in cima ai sette principi sui cui costruire i sistemi alimentari del futuro. Il tema, sostengono gli autori, non è tanto cercare di capire se è meglio il modello locale o globale di agricoltura (ognuno dei due può esserlo in contesti determinati e diversi), ma incoraggiare la diversità a tutti i livelli, lungo tutta la filiera alimentare.

Ovviamente, non si tratta solo di lavorare sulle pratiche, ma, soprattutto, sulle politiche, sui sistemi di governance e sulle dinamiche commerciali, dominate da veri e propri oligopoli e monopoli. Non a caso, l’articolo discute di governance policentrica e di ampia partecipazione della società civile alle politiche, elementi centrali per bilanciare la concentrazione di potere che viviamo oggi. E qui emerge un nodo dolente, legato al sistema di conoscenze e di informazioni sul funzionamento dei sistemi alimentari. È necessaria, infatti, una vera e propria alfabetizzazione alimentare in grado di rendere consapevoli cittadini e politici, troppo spesso influenzati dalla pubblicità e dalle attività di lobbying dell’industria agroalimentare. Per riallocare il potere tra gli attori della società e al loro interno, ci vuole un doppio percorso: politico dall’alto e sociale dal basso, come rivendicazione di diritti.

La direttiva europea 2001/18 disciplina la messa in commercio e la possibilità di fare sperimentazione in campo delle varietà geneticamente modificate.

La differenza oggi la fa la potenza della tecnologia, che porta alcuni scienziati a immaginare che l’unico limite sia nella nostra immaginazione e, ovviamente, nelle restrizioni legali che la politica metterà. Nessuno ricorda, però, che la maggior parte dei caratteri di interesse agronomico sono su base multifattoriale (legati all’espressione di più geni allo stesso tempo), che sono influenzati dall’ambiente e che il genoma è un sistema molto più fluido e complesso di quanto pensavamo anni fa quando si insegnava il dogma centrale della biologia basato sul principio che un gene (tratto fisico di Dna) codifica per una proteina. Insomma, la corsa alle Tea riporta indietro l’orologio delle scienze agrarie, facendoci tornare a un’epoca di positivismo scientifico riduzionista che pensavamo ormai superata.

CREDITS ALTRECONOMIA

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Lettera congiunta alla Commissione Europea in merito alla riforma della legislazione sementiera

Lettera congiunta alla Commissione Europea in merito alla riforma della legislazione sementiera

In attesa della proposta sulla riforma sementiera, prevista per fine giugno e che dovrebbe essere seguita a stretto giro dalla proposta di (de?) regolamentazione dei nuovi OGM, 38 organizzazioni della società civile provenienti da 20 paesi Europei hanno firmato una lettera alla Commissione nella quale sottolineano alcuni punti fondamentali da tenere presenti. In particolare, la lettera richiama l’attenzione sull’importanza che la riforma:

  1. promuova la creazione di sistemi alimentari sostenibili e resilienti,
  2. permetta ad agricoltori e hobbisti impegnati nella conservazione e la gestione dinamica dell’ agrobiodiversità di non dover sottostare alle regole sulla commercializzazione delle sementi pensate per il settore commerciale,
  3. preveda procedure ad hoc per facilitare la registrazione di varietà con un alto grado di diversità genetica ed adatte a sistemi biologici,
  4. assicuri al consumatore informazioni trasparenti sulle sementi disponibili sul mercato.
Ci stiamo “mangiando” la biodiversità

Ci stiamo “mangiando” la biodiversità

L’agricoltura intensiva è la principale causa della scomparsa degli habitat. Serve un nuovo paradigma agroecologico basato sulla complessità.

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 259 – Maggio 2023

Il mese di maggio vede la ricorrenza di due date importanti. Il 20 si celebra la Giornata nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, istituita dalla legge 194/2015 intitolata “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare”. Il 22, invece, cade la Giornata mondiale della biodiversità, istituita dalla Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). La vicinanza tra queste due date è casuale, ma fortemente simbolica e politica: agricoltura e biodiversità sono mondi connessi uno all’altro, anche se nel corso del Novecento lo abbiamo dimenticato.

“L’agricoltura rappresenta una minaccia senza precedenti per la biodiversità in tutto il mondo -si legge sul sito della Cbd-. L’intensificazione della produzione alimentare sta danneggiando il nostro ambiente attraverso la conversione degli habitat naturali in monocolture, il degrado del suolo, il consumo smodato di acqua e l’uso insostenibile di pesticidi e fertilizzanti”.

Insomma, ci stiamo letteralmente “mangiando” il mondo nel quale viviamo, in un circolo vizioso dal quale non riusciamo a uscire e che produce obesità nei Paesi ricchi, senza risolvere il problema della fame in quelli poveri.

Certo, l’agricoltura può anche essere parte della soluzione, come raccontiamo in questa rubrica, ma sarebbe necessario un cambio di prospettiva e di analisi che ancora non si vede all’orizzonte né attuato nelle politiche agricole. Troppo spesso queste ultime sono ostaggio di dinamiche settoriali, che mirano a mantenere lo status quo, senza avere quella visione di lungo periodo che dovrebbe legare i sistemi agricoli a quelli alimentari, e quindi alla salute, e allo spazio naturale non coltivato intorno a noi. Insomma, una visione in grado di rovesciare il paradigma riduzionista ed economicista dell’agricoltura industriale, frutto del pensiero novecentesco, in nome di un nuovo paradigma agroecologico, basato su complessità, olismo e diversità.

Le specie animali e vegetali a rischio estinzione sono 41mila, secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn).

Un articolo pubblicato su Nature Food nel gennaio 2023 (“Reframing the local-global food systems debate through a resilience lens”) mette proprio la diversità in cima ai sette principi sui cui costruire i sistemi alimentari del futuro. Il tema, sostengono gli autori, non è tanto cercare di capire se è meglio il modello locale o globale di agricoltura (ognuno dei due può esserlo in contesti determinati e diversi), ma incoraggiare la diversità a tutti i livelli, lungo tutta la filiera alimentare.

Ovviamente, non si tratta solo di lavorare sulle pratiche, ma, soprattutto, sulle politiche, sui sistemi di governance e sulle dinamiche commerciali, dominate da veri e propri oligopoli e monopoli. Non a caso, l’articolo discute di governance policentrica e di ampia partecipazione della società civile alle politiche, elementi centrali per bilanciare la concentrazione di potere che viviamo oggi. E qui emerge un nodo dolente, legato al sistema di conoscenze e di informazioni sul funzionamento dei sistemi alimentari. È necessaria, infatti, una vera e propria alfabetizzazione alimentare in grado di rendere consapevoli cittadini e politici, troppo spesso influenzati dalla pubblicità e dalle attività di lobbying dell’industria agroalimentare. Per riallocare il potere tra gli attori della società e al loro interno, ci vuole un doppio percorso: politico dall’alto e sociale dal basso, come rivendicazione di diritti.

Trent’anni fa nel saggio “Monoculture della mente” Vandana Shiva scriveva: “Conservare la biodiversità è impossibile, finché essa non sia assunta come la logica stessa della produzione”, lanciando una sfida che non possiamo più eludere alla nostra società occidentale. Praticare la diversità sarebbe il mondo migliore per dare un senso compiuto alle celebrazioni di maggio.

CREDITS ALTRECONOMIA

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Le politiche locali del cibo

Le politiche locali del cibo

Il ruolo delle città nei sistemi locali del cibo

di Virginia Altavilla |Rete Semi Rurali

Il Tavolo Nazionale Sistemi Alimentari

Negli ultimi decenni il Ministero degli Affari Esteri italiano ha dato vita a quella che viene definita “diplomazia alimentare”. Questo settore della diplomazia si è andato concretizzando dopo il Vertice sui Sistemi Alimentari delle Nazioni Unite, che si è tenuto a Roma nel luglio del 2021 e ha promosso la creazione del Tavolo Nazionale Sistemi Alimentari permanente coordinato dall’inviato speciale per la sicurezza alimentare, Stefano Gatti.

Il ruolo del Tavolo è quello di riunire i maggiori esperti della filiera agroalimentare italiana con l’obiettivo di delineare la posizione dell’Italia su cibo, sostenibilità e sicurezza alimentare nei fori internazionali (G7, G20, ONU, UE). Il Tavolo si riunisce periodicamente e mantiene un dialogo aperto con tutti gli attori della filiera alimentare, come il settore privato – le aziende del settore agroalimentare –, le associazioni di categoria – dalla Coldiretti alla CIA–, i rappresentanti dei movimenti e della società civile – come Slow Food e Banco Alimentare –, e gli enti di ricerca agricola. Questa esigenza nasce perché cibo e agricoltura hanno assunto un ruolo cruciale nelle relazioni internazionali e la stessa Unione Europea ha posto particolare attenzione sui sistemi alimentari per il loro ruolo strategico per realizzare la transizione ecologica. Per rispondere a queste sollecitazioni, che prevedono un cambiamento delle politiche verso una maggiore sostenibilità, il Tavolo si è organizzato in quattro gruppi di lavoro:
1. Sistemi e politiche locali del cibo: si avvale del lavoro della Rete Italiana Politiche Locali del Cibo, che da anni studia possibili strategie per la ri-territorializzazione delle politiche legate ai sistemi alimentari per una maggiore sostenibilità.
2. Sostenibilità delle imprese agroalimentari: lavora con il mondo delle aziende agroalimentari e delle associazioni di categoria su due argomenti principali: misurazione delle performance di sostenibilità delle imprese e istituzione di un’etichettatura fronte pacco che superi i limiti delle attuali proposte.
3. Spreco alimentare e diete sostenibili: si occupa di studiare lo spreco alimentare (grazie anche all’Osservatorio sullo spreco alimentare) per elaborare politiche ad hoc in grado di contrastare questo fenomeno globale. Insieme allo spreco alimentare, il gruppo si occupa di studiare le diete sostenibili, con un focus particolare sulla dieta mediterranea.
4. Zootecnia sostenibile: lavora per costruire solide basi scientifiche per il possibile ruolo della zootecnia nella costruzione di sistemi alimentari sostenibili.

Il Rapporto “I sistemi e le politiche locali del cibo come strumento per la trasformazione verso sistemi alimentari sostenibili”. Il ruolo delle città.

Il primo gruppo di lavoro ha elaborato un Rapporto in seguito alla serie di incontri che si sono tenuti nel corso del 2021 con la partecipazione di diversi attori – movimenti, associazioni, istituzioni locali, mondo della ricerca – e l’obiettivo di elaborare un documento in cui definire problematiche e possibili soluzioni per la transizione ecologica dei sistemi alimentari. Riportiamo di seguito alcuni spunti di riflessione in merito al ruolo delle città nei sistemi locali del cibo.

Il concetto chiave che pervade tutto il Rapporto sta nella ri-territorializzazione dei sistemi alimentari, non solo dal punto di vista produttivo e di consumo, ma anche dal punto di vista politico. E quindi i canali commerciali alternativi che si basano sulla filiera corta (GAS, CSA, mercati contadini, vendita diretta in azienda) rappresentano una buona pratica sia per gli effetti positivi che hanno sull’ambiente – con una diminuzione delle food miles, del food footprint, dello spreco alimentare – sia perché portano a una democratizzazione del sistema alimentare attraverso un controllo dal basso della filiera. In questo senso le città possono diventare attori strategici della ri-territorializzazione, con la costruzione di una nuova relazione città-campagna, in cui la campagna non è più vista (e vissuta) come un territorio marginale e fragile, ma assume un ruolo centrale in quanto produttrice di cibo salutare e “a km 0” ma anche fornitrice di servizi ecosistemici che vanno a influenzare direttamente la qualità della vita delle città. Le politiche urbane del cibo sono un buon esempio di riappropriazione politica del cibo, e sempre più città in Italia le stanno adottando. Le esperienze, ad esempio, di Milano, Roma, Livorno, Lucca, Roma, Trento, Bari, Bergamo ci dimostrano che è possibile realizzare una politica di integrazione sul tema cibo, in cui le singole politiche settoriali (salute, energia, agricoltura ecc.) sono armonizzate all’interno di un quadro strategico coerente. Ri-territorializzare i sistemi alimentari vuol dire dunque anche ri-politicizzare il cibo, con processi di co-creazione e co-produzione delle politiche.

Il ruolo delle amministrazioni locali diventa, quindi, fondamentale nello sviluppo di governance orizzontali che vadano a coordinare e stimolare le diverse iniziative a livello locale. Il passo successivo è la creazione di sistemi di governance multilivello, attraverso cui sviluppare e allineare le Politiche del Cibo a livello locale, regionale e nazionale per arrivare, magari, a una politica del cibo a livello europeo. Anche in questo caso le amministrazioni locali possono assumere un ruolo cruciale.

La lunga avventura dei distretti biologici tra leggi e pratiche

La lunga avventura dei distretti biologici tra leggi e pratiche

di Riccardo Bocci | Rete Semi Rurali

Uno dei prodotti concreti della nuova legge nazionale sull’agricoltura biologica (n. 23/2022) è la definizione dei distretti biologici.

L’idea dell’applicazione del concetto di distretto territoriale al mondo agricolo e rurale non è nuova, già la legge 228/2001 su “Orientamento e modernizzazione del settore agricolo” aveva definito, modificando la legge 317/1991 che istituiva i distretti industriali, come distretti rurali “i sistemi produttivi locali caratterizzati da un’identità storica e territoriale omogenea derivante dall’integrazione fra attività agricole e altre attività locali, nonché dalla produzione di beni o servizi di particolare specificità, coerenti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali”.

La stessa legge prevedeva la possibilità di creare distretti alimentari di qualità, legati a produzioni alimentari certificate. Nel 2017, la legge 205 sul Bilancio di previsione dello Stato fa un passo ulteriore nell’applicazione del concetto di distretto al mondo agricolo, istituendo all’articolo 13 i distretti del cibo, che incorporano i distretti rurali, ma anche i biodistretti o distretti biologici definiti come “territori per i quali agricoltori biologici, trasformatori, associazioni di consumatori o enti locali abbiano stipulato e sottoscritto protocolli per la diffusione del metodo biologico di coltivazione, per la sua divulgazione nonché per il sostegno e la valorizzazione della gestione sostenibile anche di attività diverse dall’agricoltura.

Nelle Regioni che abbiano adottato una normativa specifica in materia di biodistretti o distretti biologici si applicano le definizioni stabilite dalla medesima normativa”.

Sul sito del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (MASAF) si può scaricare l’elenco completo di tutti i distretti del cibo registrati in ogni Regione, da cui si evince la presenza di una pletora di denominazioni: distretti rurali, distretti agroalimentari di qualità, distretti del cibo, biodistretti, strade, comunità del cibo. Infatti, dobbiamo segnalare che nel 2014 viene approvata la legge 194, Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, che aggiunge ai distretti le Comunità del cibo, ulteriore possibilità di associare agricoltori e altre realtà a livello locale.

Al primo posto della competizione tra Regioni troviamo la Toscana con 39 registrazioni, seguita da Calabria (29) e Campania (23). Si passa da distretti legati a filiere produttive ben riconoscibili, a realtà come il Distretto Biologico delle Marche, dove il confine è tutta l’area regionale.

Alla fine, in questo turbinio di nomi, in cui ogni Regione applica una propria strategia di aggregazione sociale e territoriale, non si capisce se la diversità è sintomo di una reale necessità locale di nuove forme di programmazione e gestione dei territori, o se è semplicemente una riaggregazione delle solite forze in cerca di possibili contributi. In altre parole: siamo in presenza di un nuovo rinascimento rurale o si tratta di una nuova retorica e narrazione dell’ennesimo marketing territoriale, svuotata di ogni potere realmente innovativo e trasformativo dei sistemi agroalimentari? Difficile oggi dare una risposta a un mondo così variegato e poco conosciuto.

Nel frattempo, in attesa della legge sul bio, alcune regioni hanno iniziato a produrre normative per specificare criteri e requisiti per costituire un distretto biologico, prevedendo, in questo caso, la necessità del riconoscimento da parte dell’ente regionale stesso.

Molti sono oggi i biodistretti organizzati dalla società civile, non formalmente costituiti ma di fatto attivi, anche se non riconosciuti dalle Regioni

Ad oggi Lazio, Toscana, Marche e Liguria hanno specifiche normative regionali, che resteranno in vigore anche con l’entrata in vigore del decreto ministeriale 28 dicembre 2022, Determinazione dei requisiti e delle condizioni per la costituzione dei distretti biologici, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 24 febbraio 2023. Vediamo cosa prevede. Intanto, per fare un distretto biologico servirà un comitato promotore che deve dotarsi di un protocollo dove descrivere i soggetti coinvolti, l’ambito geografico, le attività partecipative previste e il soggetto gestore. Il comitato sarà responsabile dell’inoltro della domanda ufficiale alla regione. Nel consiglio direttivo del distretto dovrà esserci almeno il 51% di agricoltori biologici, ma la partecipazione è aperta a soggetti sia pubblici che privati. A differenza di quanto previsto in alcune Regioni, la partecipazione degli enti locali è facoltativa. Interessante sottolineare che i distretti biologici possono promuovere la costituzione di gruppi di operatori con l’obiettivo di realizzare forme di certificazione di gruppo.

Se il lato delle produzioni biologiche è uno degli obiettivi principali di questi distretti, non va dimenticato che la legge 23 prevede di promuovere e realizzare progetti di ricerca partecipata con le aziende e la diffusione delle pratiche innovative.

 In questo contesto istituzionale e legislativo, va segnalato che, già dal 2015, la società civile ha cominciato a praticare i biodistretti, creando associazioni locali mappate nel sito biodistretto.net che al 2022 riporta la presenza di 50 biodistretti formalmente costituiti. Di sicuro, però, molti di questi non sono riconosciuti dalle Regioni, ma dovranno diventarlo per poter accedere ai bandi che si prevede usciranno entro l’anno.