Dai troppi quintali alla fiducia nelle comunità
di Claudio Pozzi – Coordinatore Rete Semi Rurali
Se davvero vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo capire bene che significato vogliamo dare al termine resiliente, soprattutto se utilizzato nei confronti di una filiera di produzione più che millenaria.
Maggio 2017, Scansano, Grosseto. Avevo un’ora a disposizione per raccontare perché, con Rete Semi Rurali, stavamo lavorando alla reintroduzione di varietà locali di grano sulla base di motivazioni agronomiche, economiche e nutrizionali. Com’è mio uso, ho fatto una breve introduzione per animare un dibattito che mi permettesse di completare l’informazione senza appesantire i presenti. Interviene un anziano in prima fila che chiede “Quanto rendono questi grani?” Cerco conferma negli occhi di chi fra i presenti da qualche tempo aveva adottato qualche varietà locale iniziando a commercializzarne farine e pasta e rispondo che in quelle zone, con notevoli oscillazioni annuali, si può ritenere buona una media di 15 quintali a ettaro. “Ooohh” mi risponde l’anziano “a Pomonte due anni fa ha reso 80 quintali!” Avevo pronta una cartucciera intera da sparare ma è bastata la domanda “A quanto li hanno venduti tutti quei quintali?” Senza alcuna esitazione l’anziano mi risponde che nessuno li aveva ritirati perché non avevano abbastanza proteine. Tanta era stata la felicità per lo straordinario risultato raggiunto che il lavoro e l’energia, i prodotti acquistati e le relative spese per arrivare ad un risultato di quel tipo, pur se andati del tutto sprecati, passavano in secondo piano.
Ho sempre più l’impressione che la nostra sia una missione culturale e sociale prima che di innovazione genetica o agronomica. Se vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo capire bene che significato vogliamo dare al termine resiliente, soprattutto se utilizzato per una filiera di produzione più che millenaria. Ci interessa qui sottolinearne il senso, ormai abusato e strapazzato in qualsiasi scritto o dibattito.
Solo qualche anno fa, nel 2015, quando abbiamo deciso il titolo di quello che è diventato un progetto di grande ispirazione, la parola resiliente era poco usata. A noi, in quel momento, sembrava rappresentare bene l’attitudine delle popolazioni evolutive di frumento ad adattarsi nel tempo alle condizioni ambientali in cui venivano coltivate. Condizioni ormai del tutto instabili e poco prevedibili. Unica certezza: l’aumento delle temperature medie e la diminuzione delle precipitazioni.
Ma quale sia il percorso e in quali termini se ne manifestino gli effetti stagionali, è un mistero per tutti. Avere a disposizione una popolazione, in grado di non soccombere agli eventi imprevedibili e addirittura di stabilizzarsi su una media produttiva, quella sì finalmente prevedibile, ci sembrava un risultato straordinario. Lo scommettere che quel fenomeno, che stavamo osservando a latitudini e climi molto diversi tra loro, come Toscana e Sicilia, potesse verificarsi anche in contesti infra-regionali, ci ha appassionati ed intrigati. Nel frattempo, la Commissione europea sviluppava una linea progettuale per i PSR locali che sembrava adattarsi al nostro mandato di animazione del territorio: i PEI o Gruppi Operativi, quasi pensati e cuciti a nostra immagine e somiglianza. Poter mettere in pratica il proprio immaginario attraverso esperienze concrete è quanto di meglio ci si possa aspettare. Il dibattito applicativo ci ha portati ben presto a comprendere che la gestione di quelle sementi non era affatto scontata e poteva avvenire solamente in un sistema diverso da quello esistente.
La resilienza della semente e dei suoi derivati è condizionata non solo dal clima e dalle caratteristiche del suolo, e dalle infrastrutture presenti sul territorio, ma anche dalle attitudini relazionali delle comunità e dalla psicologia sociale che le contraddistingue e le diversifica.
Il primo pensiero è stato quello di proporre il coinvolgimento e la nascita di ditte sementiere locali. Il termine ditta aveva però un suono che stonava alle nostre orecchie, appariva quasi cacofonico rispetto al fluire delle idee che stavamo elaborando. È stato così che il termine “sistema sementiero” ha iniziato a prender forma, a farsi strada e a raccogliere consensi. Ci è apparso chiaro improvvisamente che un sistema sementiero diffuso sarebbe stata la simbiotica conseguenza della scelta di coltivare popolazioni evolutive, un sistema locale di produzione delle sementi, capace di flessibilità per rispondere alle esigenze degli attori e alle dinamiche organizzative e logistiche caratteristiche dei diversi territori: a ogni terreno il suo seme, a ogni territorio il suo sistema sementiero.
Un passo importante che ci ha permesso di presentarci alle comunità dei vari areali climatici della Toscana portando sì un nuovo seme – probabilmente più performante delle varietà locali – ma altrettanto rispettoso sia del metabolismo del suolo che del metabolismo di chi ne avrebbe acquistato e consumato i prodotti finali.
Altre sorprese e consapevolezze ci aspettavano al varco. L’incontro con le piccole comunità di coltivatori della zona collinare rivelava attitudini relazionali completamente diverse da quelle degli areali di montagna o costa. La resilienza della semente e dei suoi derivati era quindi condizionata non solo dal clima e dalle caratteristiche del suolo, non solo dalle infrastrutture presenti sul territorio, ma anche dalle attitudini relazionali delle comunità e dalla psicologia sociale che le contraddistingue e le diversifica. Diventava quindi necessario costruire un sistema di regole che fossero univoche e riconoscibili anche su territori diversi ma che, allo stesso tempo, permettessero una grande flessibilità di adattamento ai cangianti contesti psicosociali.
Dall’osservazione e dalla riflessione su queste necessità siamo giunti ad uno dei primi risultati tangibili di questo progetto: l’etichetta che accompagna le prime prove di vendita di una semente eterogenea non riconducibile ad una varietà da conservazione. È la prima volta che un’azienda agricola, in collaborazione con Rete Semi Rurali, vende semente di popolazione, mantenuta e selezionata nei propri campi, ufficialmente cartellinata dal CREADC e accompagnata da un’etichetta che sancisce diritti e doveri di chi apre quel sacco. Diritti e doveri sicuramente interessanti di per sé ma ancor più innovativi perché del tutto inattesi all’interno del sistema legale. Riconducibili invece ad un mondo in cui la fiducia reciproca torna ad essere il valore fondante riconosciuto. Si chiude il cerchio. La resilienza non sta solo nell’indiscutibile e fondamentale valore della variabilità genetica delle popolazioni evolutive. La resilienza trova la sua validazione nella ricostruzione di una collettività che si riconosce in un sistema relazionale ed organizzativo che, dal seme alla tavola, porta il segno della fiducia e della corresponsabilità dei soggetti che la animano e la sostengono.