Il processo di domesticazione è ancora in corso e dobbiamo mantenere l’evoluzione dei sistemi agrari
di Riccardo Bocci – Rete Semi Rurali
Se già la biodiversità delle specie agrarie non è sotto l’occhio dei riflettori e anzi sta scomparendo dalle nostre campagne e alle nostre tavole, situazione ancora più difficile la stanno vivendo i parentali o progenitori selvatici delle specie agrarie, definiti Crop Wild Relatives (CWRs) in inglese.
Ma cosa intendiamo con questo acronimo? In senso stretto il termine parentali selvatici include quelle piante a partire dalle quali l’uomo ha domesticato le colture. Ad esempio, nel caso del mais (Zea Mays) è facile individuare la pianta selvatica da cui è partito il processo di domesticazione, il teosinte, e anche l’areale geografico, il Centro America.
Lo scienziato russo N.I. Vavilov (vedi il suo volume più famoso, L’origine delle piante coltivate, edito da Edizioni SemiRurali nel 2023) è stato il primo all’inizio del secolo scorso a identificare i Centri di Origine delle colture: quelle zone dove le piante hanno subito il processo di domesticazione e sono caratterizzate dalla presenza dei parentali selvatici in natura. Il teosinte, infatti, non si trova come pianta spontanea in Europa. Ovviamente, poi, le piante domesticate hanno viaggiato con l’uomo e in altri contesti ambientali e sociali si sono sviluppati quelli che chiamiamo Centri di Diversità delle colture, ovvero le aree dove è presente una ricchezza varietale della specie in esame ma non i suoi parentali selvatici. Tornando al mais, l’Italia è considerato un centro di diversità, vista la moltitudine di varietà locali sviluppate nelle varie zone della penisola.
In casi diversi dal mais è più difficile ricostruire l’albero genealogico che va dalla pianta selvatica e arriva a quella coltivata, attraverso il processo di domesticazione, e allora si considerano come parentali quelle piante selvatiche che sono interfertili con quelle coltivate, cioè che possono dar luogo a incroci tra selvatico e coltivato, generando ibridi fertili. Sulla base di questo principio Harlan e Wet (1971) hanno creato il concetto di Pool Genetico, distinguendo tra:
a. Pool genetico primario (GP-1): tra le forme presenti in questo pool genetico l’incrocio avviene facilmente, gli ibridi sono generalmente fertili e il trasferimento di geni è solitamente facile.
b. Pool genetico secondario (GP-2): i membri di questo pool probabilmente vengono di norma classificati come specie diversa da quella della coltura in esame (il pool genetico primario). Tuttavia, queste specie sono strettamente correlate e possono produrre almeno alcuni ibridi fertili anche se ci sono alcune barriere riproduttive tra i membri del pool genico primario e quelli del secondario.
c. Pool genetico terziario (GP-3): i membri di questo pool genetico sono imparentati più alla lontana con i membri del pool genetico primario. I pool genetici primario e terziario possono interagire, ma il trasferimento di geni tra loro è impossibile senza l’uso di “misure piuttosto estreme o radicali”. Inoltre ciascun pool genico viene ulteriormente suddiviso in: Sottospecie A: specie coltivate, e Sottospecie B: specie spontanee.
Nel passaggio dalle forme selvatiche a quelle coltiva te c’è stata una riduzione della diversità genetica, che ha ridotto le opzioni a disposizione delle colture.
Definire i pool genetici (cioè le relazioni di parentela tra le specie) per le varie piante coltivate è importante perché consente poi di andare a cercare quelle piante selvatiche che possono essere usate nei programmi di miglioramento genetico per inserire nella coltura caratteri che non sono presenti o che sono stati persi durante la domesticazione. A seconda della specie si può trattare di caratteri di resistenza a stress biotici o abiotici, di tolleranza alla siccità o anche nutrizionali (vedi articolo seguente). Non va dimenticato, infatti, che nel passaggio dalle for me selvatiche a quelle coltivate c’è stata una riduzione della diversità genetica, un vero e proprio collo di bottiglia, che ha ridotto le opzioni a disposizione del le colture.
In questo momento storico diventa essenziale raccogliere in situ quanto più materiale possibile per conservarlo ex situ prima che si estingua.
Per questo motivo l’importanza dei CWRs nel miglioramento genetico è sempre più riconosciuta per ampliare la base genetica delle piante coltivate, e, quindi, diventa essenziale attuare delle politiche di conservazione a livello nazionale, che vanno da quella ex situ, nelle banche del germoplasma, a quella in situ, negli habitat naturali in cui si trovano. La ricerca ha proposto, ormai una ventina di anni fa, di sviluppare delle politiche positive di protezione nelle aree dove si trovano parentali selvatici a rischio di estinzione creando il concetto di Riserva Genetica (vedi articolo p.12), dove preservare le popolazioni di piante e allo stesso tempo i processi evolutivi dell’ambiente in cui vivono. Purtroppo, però, questo approccio si è dimostrato poco realistico perché la politica europea non ha aggiunto le Riserve Genetiche alle aree già tutelate per fini ambientali. In un recente articolo Raggi et al. (2024), infatti, suggeriscono di immaginare la creazione di riserve genetiche all’interno di aree protette già esistenti, come quelle, ad esempio, della Rete Natura 2000.
Venendo all’Italia, il primo dato rilevante è che la nostra penisola è il paese più ricco d’Europa in termini di numero di specie endemiche, dopo la Spagna e le Isole Baleari, ospitando circa la metà delle specie europee. Tra le specie che hanno avuto proprio in Italia il passaggio dalla forma naturale a quella coltivata possiamo citare: papavero, cicerchia, sorbo, nocciolo, susi-
no, cavolo, carciofo, cicoria, finocchio, cappero e pastinaca. Storicamente si possono individuare tre epoche in cui l’addomesticamento ha giocato un ruolo importante per l’entrata in coltivazione di nuove specie: la preistoria, l’epoca romana e il rinascimento.
Non bisogna, però, fare l’errore di considerare la domesticazione come un fenomeno storicamente determinato. Infatti, ancora oggi avviene nelle nostre campagne, come scrive Manzi nel suo libro citando il caso di Salicornia perennans e Muscari comosum in Puglia o di Scolymus hyspanicus in Basilicata. Si scopre, così, che la relazione tra natura e agricoltura è più complessa di quello che immaginiamo e, soprattutto, è un processo in continua evoluzione plasmato dalla società umana e dalla sua interazione nell’ambiente in cui vive. Il problema è che oggi stiamo rompendo questo legame evolutivo perché come scrive la FAO “i paesaggi agricoli biodiversi, in cui i terreni coltivati sono intervallati da aree incolte come boschi, pascoli e zone umide, sono stati o vengono sostituiti da vaste aree di monocoltura, coltivate utilizzando grandi quantità di input esterni come pesticidi, fertilizzanti minerali e combustibili fossili”.
In questo momento storico diventa essenziale raccogliere in situ quanto più materiale possibile per conservarlo ex situ prima che si estingua in seguito all’antropizzazione degli ambienti naturali, ma, allo stesso tempo, preservare le Riserve Genetiche a rischio con misure integrate con le aree protette già esistenti. Purtroppo in Italia ancora non esiste una strategia nazionale sui parentali selvatici delle specie agrarie. Sarebbe importante che la Strategia Nazionale per la Biodiversità al 2030 elaborata dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e il Piano Nazionale sulla Biodiversità di Interesse Agrario in corso di aggiornamento da parte del Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste avessero dei capitoli dedicati alla conservazione dei parentali selvatici con l’obiettivo di creare una rete nazionale di Riserve Genetiche.