Il duello estivo tra i due sindacati punta solo a compattare i blocchi ma la visione del settore è la medesima. E taglia fuori gli agricoltori autonomi.
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 273 – Settembre 2024
Quest’estate è avvenuto sulla carta stampata un dibattito sul futuro dell’agricoltura italiana che indica le linee entro cui i “poteri forti” si stanno muovendo. Tutto è cominciato il 26 maggio su Il Giornale con un articolo del consigliere di Filiera Italia di forte critica alla nuova associazione Mediterranea, nata tra Confagricoltura e Union Food. La polemica è continuata il giorno dopo con un altro articolo sullo stesso quotidiano che metteva in luce le “cattive” multinazionali che fanno parte di Union Food, come Nestlé e Unilever. La risposta di Confagricoltura non si è fatta attendere e, a fine maggio, ha trovato eco su Il Foglio con un attacco a Filiera Italia, rea di avere in pancia multinazionali come McDonald’s e Carrefour. Il 6 giugno, sempre su Il Giornale, è sceso in campo lo stesso presidente di Coldiretti Ettore Prandini che in un’intervista se la prende con le “mistifi-
cazioni di Confagricoltura” e, come ormai di consueto, attacca le multinazionali che minano il Made in Italy. In risposta su L’Informatore Agrario il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti in un’intervista difende le filiere realizzate da Mediterranea “volano della competitività delle produzioni italiane nel mondo”. Insomma, un’estate rovente per l’agricoltura e non solo per le temperature registrate in campo.
Un primo dato emerge da questi scambi: il futuro del sistema agroalimentare italiano si gioca sui giornali di centrodestra, non una parola è stata pubblicata su quelli di centrosinistra che forse dimenticano della centralità che potrebbe giocare l’agricoltura per la transizione ecologica. Un secondo elemento è la rottura tra i due principali sindacati: Coldiretti e Confagricoltura. I tempi della pace legata alla riorganizzazione dei Consorzi agrari e del mondo societario di Bonifiche Ferraresi (BF) (vedi Ae 253), che avevano dato vita a Filiera Italia, sembrano preistoria. Ricordiamo, infatti, che sul trono di BF era stato insediato Federico Vecchioni, ex presidente di Confagricoltura, con il beneplacito di Coldiretti a siglare il patto. A quanto pare il rumore di trattori dei mesi scorsi sta spingendo i sindacati a fidelizzare i propri agricoltori, sviluppando narrative dedicate in cui chiaramente deve emergere l’altro come nemico.
3.576 Le sezioni comunali di Coldiretti che con oltre 1,5 milioni di associati è tra le più grandi organizzazioni di imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo.
Una mera operazione di marketing che non ha l’obiettivo di creare un consenso basato sul confronto. Al contrario, quello sui contenuti è bandito, così come suscita un sorriso la schermaglia su chi si sia sposato con le multinazionali migliori. Resta però da capire il tema degli argomenti in discussione.
Su che cosa stanno litigando i due sindacati, quali strategie propongono per ridare senso all’agricoltura nella società di oggi? La risposta a questa domanda è molto semplice: la stessa! Ambedue, infatti, puntano sull’accorpamento delle filiere agroalimentari all’interno di un marchio identitario e proprietario. Un marchio basato su un concetto di Made in Italy sempre più sbandierato in un’ottica di competizione del nostro prodotto sui mercati internazionali. Sia Filiera Italia (Coldiretti), sia Mediterranea (Confagricoltura) convergono su questo punto: integrazione orizzontale e verticale degli attori con l’obiettivo di acquisire margini di valore aggiunto lungo le filiere agroindustriali, ormai controllate dai vari gruppi della Grande distribuzione organizzata (Gdo). Si delinea, quindi, un futuro fosco per quel pezzo di mondo agricolo che vive e produce in aree non competitive per cui non è integrato nella Gdo e, allo stesso tempo, rivendica una sua autonomia legata al tentativo di ancorare l’azienda al territorio e ai suoi attori sociali, e fa fatica a immaginarsi dentro Filiera Italia o Mediterranea. Come dare voce a queste realtà che per svilupparsi hanno bisogno di organizzazione, risorse e investimenti, ma sono dimenticate dalla politica?