Superare il dogma dell’uniformità in campo richiede un cambiamento sociale, economico, tecnico e culturale che avrà vincitori e vinti. Non c’è tempo da perdere.
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 263 – Ottobre 2023
Mi è capitato sottomano un articolo di Le Scienze del 1987 dal titolo “La monocoltura”, in cui si legge che uniformità colturale e monocolture (la successione della stessa specie, anno dopo anno, nello stesso campo) sono uno degli effetti della modernizzazione agricola che ha permesso la crescita di produttività, grazie al supporto della chimica di sintesi. La specializzazione colturale ha permesso l’aumento delle superfici aziendali e scollegato definitivamente allevamento e agricoltura. Questo legame, fondamentale per assicurare la fertilità del suolo, infatti non è più necessario proprio grazie ai fertilizzanti. Tra le cause individuate nella diffusione delle monocolture gli autori ricordano la meccanizzazione e le economie di scala.
L’articolo, però, già allora avanzava alcune critiche al modello, indicando effetti collaterali come l’erosione del suolo e la perdita di sostanza organica. E proponeva una serie di tecniche alternative come le rotazioni, appropriati avvicendamenti colturali e una copertura del suolo continua.
Insomma, anche 35 anni fa era evidente la strada che aveva intrapreso l’agricoltura e come fosse necessaria una drastica correzione di rotta. Da allora, altri fattori sono diventati rilevanti nel favorire la specializzazione colturale e le monocolture in una corsa senza senso verso l’uniformità. La grande distribuzione organizzata, con il suo sistema di logistica, e la concentrazione del mercato dei fattori produttivi (sementi, fertilizzanti e pesticidi) lasciano sempre meno scelte agli agricoltori. Nel 1987 gli autori dell’articolo non potevano ancora annoverare tra gli effetti perversi dell’uniformità colturale una minore capacità di far fronte ai cambiamenti climatici.
A questa conclusione, invece, sono giunti i ricercatori che hanno scritto “Crop diversity buffers the impact of droughts and high temperatures on food production”, pubblicato a giugno 2023 sulla rivista Environmental research letter. Attraverso l’analisi di 58 anni di dati su clima, produzioni e redditi di 109 colture in 127 Paesi, gli autori affermano che “una maggiore diversità delle colture riduce gli impatti negativi della siccità e delle alte temperature sulle produzioni agricole”, evidenziando “il potenziale non ancora sfruttato della diversità delle colture per una maggiore resilienza alle condizioni meteorologiche”.
Sono state 109 le colture prese in esame per un periodo di 58 anni in uno studio scientifico dedicato agli impatti dell’agrodiversità su siccità e aumento delle temperature
Insomma, in pieno antropocene e in balia dei cambiamenti climatici il settore agricolo non può più nascondersi. Deve accettare la responsabilità di essere uno dei maggiori responsabili della crisi odierna, e allo stesso tempo prendere su di sé la sfida di svolgere un nuovo ruolo per favorire la sua transizione agroecologica. Si tratta di un passaggio non facile. Anni di ubriacatura tecnologica, basati sull’illusione del progresso unidimensionale dei modelli agricoli hanno creato un baratro culturale che è difficile recuperare in così poco tempo.
Passare dal dogma dell’uniformità e della monocoltura alla diversità richiede un processo sociale, economico, tecnico, scientifico, culturale e politico di cambiamento che avrà vincitori e vinti. Un processo che dovrà ridistribuire il potere all’interno delle filiere alimentari e anche nella ricerca agricola. Non si tratta solo di democratizzare o spezzare monopoli e oligopoli economici, ma di decolonizzare le nostre menti.
Realizzare che il progresso agricolo non è una linea retta che va dal passato al futuro, dai contadini agli imprenditori agricoli, dall’agricoltura familiare a quella capitalistica, è innanzitutto un processo culturale. Tante sarebbero le strade e i modelli possibili se avessimo la capacità di ascoltare le innovazioni che nascono nei diversi territori, cercando soluzioni fuori dai percorsi già battuti, e aprendo le nostre realtà sociali alla reciproca contaminazione.
Non solo Monsanto o Syngenta: le filiere di approvvigionamento del cibo sono sempre di più nelle mani di pochi. Il caso dei cereali.
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 262 – Settembre 2023
È strano come le discussioni pubbliche sull’agricoltura in Italia siano tutte costruite attorno alla retorica del Made in Italy e del prodotto tipico, da tutelare e vendere all’estero, senza entrare nelle dinamiche in atto all’interno dei sistemi agroalimentari e nel modo in cui in questi anni il potere si stia riorganizzando.
Anche il tema dell’aumento dei prezzi dei cereali parallelo alla guerra in Ucraina è stato accettato come un dato di fatto incontestabile, legato alla riduzione della disponibilità da parte di fornitori impegnati nel conflitto. Un normale effetto delle leggi di mercato, si dirà. Alcuni recenti studi però hanno messo in evidenza come il commercio di frumento non abbia subito ripercussioni in termini di quantità assolute scambiate; che a livello mondiale sono aumentate di sei milioni di tonnellate nel 2021-2022 rispetto al periodo precedente.
In altre parole, la guerra in Ucraina sembra aver avuto un effetto trascurabile sia sulla produzione sia sull’utilizzo, persino associata a un aumento degli scambi sui mercati globali. Allora a che cosa dobbiamo gli aumenti del costo dei cereali? La risposta è semplice: la concentrazione del mercato nelle mani di poche, grandi aziende. Hanno aumentato in maniera unilaterale i prezzi, sapendo che tale pratica sarebbe stata accettata e giustificata dalla guerra. Infatti, nessun governo o autorità antitrust ha punito queste pratiche sleali. Uno dei principali fattori che ha permesso tutto ciò è la poca conoscenza da parte del pubblico di questo mercato e la sua scarsa trasparenza. Quando, come cittadini, parliamo di concentrazione in agricoltura abbiamo in mente i grandi “cattivi” come Monsanto o Syngenta che controllano il mercato sementiero. Ma non abbiamo nessuna percezione di come siano organizzate le filiere di approvvigionamento alimentare.
Sono 8,2 miliardi di dollari la cifra pagata dal colosso agroalimentare Bunge per l’acquisto della società olandese Viterra, controllata dalla svizzera Glencore
Pochi sanno che dietro l’acronimo “Abcd” si nascondono le quattro aziende che controllano il 90% del commercio mondiale di cereali: Archer Daniels Midland (Adm), Bunge, Cargill e Louis Dreyfuss. Questo elevato livello di concentrazione, che potremmo definire monopolistico, ha portato queste aziende a detenere un controllo quasi totale delle filiere che ha consentito loro di avere un aumento significativo degli utili nel periodo della guerra. Nel 2022, ad esempio, Adm ha registrato un aumento dei profitti del 74% rispetto al 2021. È interessante notare che nei libri di economia un rapporto CR-4 (la quota di mercato delle quattro maggiori imprese in un settore) superiore al 40% è indice di non competitività, che porta i guadagni di efficienza derivanti dalle economie di scala a diventare profitti delle aziende, utilizzati per accelerare ulteriormente il loro consolidamento.
Nel giugno 2023 Bunge (azienda statunitense specializzata in mais, colza e soia) ha acquistato Viterra, leader nel settore del frumento e controllata dalla svizzera Glencore con i fondi pensionistici canadesi. Se nessuna autorità antitrust interverrà per fermare questa fusione assisteremo a una ristrutturazione di “Abcd”, con “B” che supererà “A”, avvicinandosi al fatturato della statunitense Cargill.
Anche la speculazione finanziaria, attraverso il mercato dei future, ha contribuito al rialzo dei prezzi, dimostrando come le nuove regolamentazioni messe in campo da Stati Uniti ed Unione europea dopo la crisi alimentare del 2007-2009 non stiano servendo a molto. Concentrazione, consolidamento, riduzione del numero degli attori sono gli assi intorno cui si sta ristrutturando e uniformando il sistema alimentare globale. L’assenza di dibattito su questi temi nella politica agricola italiana, tutta impegnata a difendersi dalla carne sintetica, denota quanto sarà difficile invertire queste tendenze.
The Centrality of Seed: Building Agricultural Resilience Through Plant Breeding
by Salvatore Ceccarelli, PhD
Five of the global issues most frequently debated today are the decline of biodiversity in general and of agrobiodiversity in particular, climate change, hunger and malnutrition, poverty and water. Seed is central to all five issues. The way in which seed is produced has been arguably their major cause. But it can also be the solution to all these issues.
Necessaria per la commercializzazione di sementi di specie agrarie che hanno un Registro Varietale o Catalogo La certificazione è delegata all’organismo di controllo autorizzato (in Italia, ENSE). A partire dal seme prodotto dalla selezione conservatrice (Nucleo), le categorie certificate sono: Pre-Base (PB), Base (B), 1° riproduzione (R1) e 2° riproduzione (R2). Al di fuori di queste categorie non è possibile commercializzare semente destinata alla semina, ma solo per uso zootecnico”. Per le specie che non hanno registro (per esempio molte specie orticole: la lenticchia, il farro dicocco, ecc..) è possibile la commercializzazione di semente definita “standard”, per la quale il produttore dichiara la specie, la denominazione della varietà o della popolazione, la provenienza, l’anno di produzione del seme. In questo caso non c’è controllo da parte dell’ENSE.
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