L’istituzione Upov non riconosce il lavoro degli agricoltori e condiziona gli accordi commerciali. Una campagna chiede all’Ue di smettere di promuoverla
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 244 – Gennaio 2022
Il 2 dicembre 2021 è stato un compleanno un po’ speciale: 60 anni fa è stata fondata Upov (Unione internazionale per la protezione delle nuove varietà vegetali), sigla quasi sconosciuta che identifica l’istituzione che regola i diritti di proprietà sulle nuove varietà. Si tratta del primo accordo tra Stati che ha introdotto il concetto di proprietà nel mondo delle piante agrarie, prendendo come modello quello che stava succedendo nei Paesi industrializzati.
Come abbiamo più volte ricordato nella nostra rubrica, questo tipo di proprietà intellettuale, definito “privativa vegetale” e meno monopolistico del brevetto industriale, si caratterizza per consentire il libero accesso alle piante protette ai fini di ricerca e per permettere agli agricoltori di usare il seme prodotto dal raccolto dell’anno prima. Nel tempo l’accordo è stato modificato limitando sempre di più il cosiddetto “privilegio” dell’agricoltore e ampliando, al contrario, i diritti dei cosiddetti “costitutori” e delle ditte sementiere. L’ultima versione del 1991 (Upov 91) rende addirittura facoltativo riconoscere il diritto alla risemina degli agricoltori.
L’Unione europea promuove Upov a livello mondiale, inserendolo come clausola obbligatoria in molti degli accordi commerciali con i Paesi non industrializzati. La filosofia è chiara: lo sviluppo può esserci solo in quei Paesi che hanno un adeguato sistema di tutela della proprietà intellettuale, prerequisito per avere poi l’ingresso di capitali e società in grado di favorire lo sviluppo. Peccato che non ci sia uno straccio di prova a supporto di questa tesi e che, al contrario, in altri settori economici i Paesi meno avanzati si sono sempre sviluppati copiando quelli più avanzati senza riconoscere a questi ultimi i brevetti sulle loro invenzioni.
Ma la promozione di questo modello unico comporta ulteriori problemi: Upov, infatti, è diventato lo standard per definire che cos’è una varietà che dal 1961 individua un insieme di piante uniformi, distinte e stabili. La diversità presente nelle varietà locali viene così bandita dall’agricoltura. Inoltre Upov promuove solo un tipo di innovazione basato sulla proprietà individuale non riconoscendo il lavoro informale attuato nel tempo dagli agricoltori o l’innovazione partecipata che si sta sviluppando in questi anni coinvolgendo ricercatori, cittadini e agricoltori per sviluppare popolazioni o materiale eterogeneo.
Sono 75 gli Stati che fanno parte di Upov al febbraio 2021 cui si aggiungono l’Unione europea e l’African intellectual property organization (Oapi).
Per riflettere sui rischi di avere Upov come standard a livello mondiale, la società civile ha indetto nel dicembre 2021 una settimana di mobilitazione internazionale sul tema. In Europa l’associazione Aprebes (Association for plant breeding for the benefit of society) ha lanciato una campagna per chiedere all’Unione europea di smettere di promuovere Upov e i brevetti all’interno degli accordi commerciali, spiegando in un recente rapporto l’impatto che tali politiche stanno avendo sui sistemi sementieri locali. Infatti una cosa è rendere illegale e non sostenere le varietà locali e i relativi sistemi sementieri nei Paesi ricchi dominati dal modello industriale a livello sementiero e distributivo, un’altra è farlo dove ancora tra il 50 e il 90% della semente viene circolata e prodotta dai sistemi cosiddetti informali. Si tratta di politiche ancora di stampo colonialistico che proiettano su questi Paesi il nostro modello e percorso di sviluppo non lasciando loro margini di creatività. Quella creatività che, è utile ricordarlo, ci potrebbe essere utile anche per correggere le nostre derive e i nostri errori.
Il sistema della proprietà intellettuale minaccia l’agro-biodiversità nel settore delle sementi. Il caso del “salvataggio” di Verisem
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 240 – Settembre 2021
In maniera subdola e silenziosa il brevetto si sta imponendo nel settore delle sementi. Sempre di più le multinazionali lo usano per proteggere le nuove varietà, sconvolgendo il mondo agricolo e mettendo in crisi i due pilastri del sistema della proprietà intellettuale usati finora per proteggere le varietà (la cosiddetta privativa vegetale): l’esenzione della ricerca e il privilegio dell’agricoltore. Infatti, la privativa data a chi produce nuove varietà ha due “garanzie” che non si trovano nel brevetto: chiunque può usare l’innovazione come base per produrre nuove varietà e l’agricoltore può riseminare in azienda le sementi prodotte da varietà protette (con una serie di limitazioni). Il brevetto, in più, si applica non solo alle sementi, ma arriva a coprire i prodotti ottenuti da queste. Insomma, un super monopolio dal campo al piatto.
Il rapporto 2021 della campagna “No patents on seeds” (no-patents-on-seeds.org) ci racconta questo processo, evidenziando come le big companies stiano usando lo strumento brevettuale per proteggere le nuove varietà, anche quelle prodotte da miglioramento genetico classico senza l’uso delle biotecnologie. Nel 2020 delle circa 300 domande presentate all’Ufficio europeo dei brevetti, 50 riguardano varietà derivate da procedimenti classici di miglioramento genetico.
Come avrebbe detto lo scrittore Eduardo Galeano, viviamo in un mondo alla rovescia: chi propaganda il libero mercato allo stesso tempo vuole una tutela della proprietà intellettuale sempre più forte e monopolistica. Così monopolistica che finisce per asfissiare il processo innovativo invece di favorirlo. Eppure, non è stato sempre così. Nella prima metà dell’Ottocento i pensatori liberali, in nome del libero mercato, non volevano riconoscere un monopolio agli innovatori: il loro unico vantaggio sarebbe stato il fatto di arrivare prima sul mercato.
300 domande di brevetto su varietà vegetali depositati nel 2020 all’Ufficio europeo dei brevetti.
Mentre si racconta la favola del libero mercato, l’innovazione varietale in agricoltura viene rinchiusa dentro monopoli, detenuti da compagnie sempre più grandi e accorpate in grado di determinare e controllare tutta la filiera fino a noi cittadini. Questo modello, inoltre, sta favorendo lo sviluppo di ditte sementiere multinazionali che agiscono di fatto a scapito di un sistema di piccole imprese locali. Il gioco di scatole cinesi tra società multinazionali finirà per distruggere il già debole tessuto economico della nostra industria sementiera. Qualche anno fa è stato il caso della Produttori Sementi Bologna, storico marchio specializzato nei cereali, finito prima in pancia a Syngenta e poi a ChemChina.
In questi mesi è in corso un dibattito per “salvare” Verisem, conglomerato che nasce come italiano, che detiene marchi storici come Franchi e Hortus sementi, ma che ormai è una multinazionale. La già citata ChemChina ha messo sul piatto 200 milioni di euro, ma si sta costruendo un consorzio per
mantenere l’italianità dell’impresa con capofila Bonifiche Ferraresi. Ma è veramente garantire l’italianità la soluzione? In realtà i buoi sono già scappati dal recinto da un pezzo, Verisem è già sotto controllo di un fondo di investimenti. Non è tanto importante garantire l’italianità della proprietà, quanto ripensare dalle fondamenta il processo di innovazione varietale e i diritti di proprietà intellettuale a esso legati. Va rimesso in discussione il sistema monopolistico di protezione legato al brevetto e con esso a cascata il business model delle ditte sementiere. Solo così potremo costruire nuovi sistemi sementieri locali diversificati e immaginare un futuro di ditte locali in grado di valorizzare l’agrobiodiversità prodotta dalla ricerca partecipata e decentralizzata.
Anche in Italia le ditte vanno a caccia degli agricoltori “fuorilegge”. Per sfuggire alla morsa occorrono sistemi nuovi, fuori dai monopoli della filiera industriale.
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 229 – Settembre 2020
A novembre 2019 un agricoltore di Vittoria in Sicilia è entrato di diritto nella storia delle battaglie legali sulle sementi. Il giudice del tribunale di Ragusa l’ha condannato a un anno di carcere con la condizionale, al pagamento di 15mila euro di multa e al risarcimento di 70mila euro per danni patrimoniali oltre alle spese processuali. Oggetto della causa è la coltivazione nella sua azienda di un pomodoro di proprietà della Syngenta Crop Protection, senza avere acquistato legalmente il seme di detta varietà. Sembra una pena spropositata a fronte del crimine commesso ma la proprietà intellettuale non lascia scampo e in questo caso era necessario dare un segnale forte per colpire i molti che utilizzano questi sistemi abusivi di commercializzazione delle piantine.
Infatti nella zona del ragusano circa il 30% delle coltivazioni di pomodoro è fatta in maniera illegale eludendo il riconoscimento della proprietà intellettuale sulle sementi, come prontamente denuncia il sito della società che ha citato in causa l’agricoltore (una ditta privata olandese denominata Ufficio per la lotta alle violazioni dei diritti di proprietà intellettuale sul materiale vegetale dal cui sito è possibile fare denunce anonime di agricoltori supposti truffaldini, aib-seeds.com). Ovviamente non stiamo parlando di agricoltura familiare o di piccola scala ma del cuore pulsante della produzione industriale di pomodoro, filiera dove la ricchezza si trova a monte e a valle della produzione ma ne resta veramente poca a chi lavora la terra.
15.000: un contadino di Ragusa è stato condannato al pagamento di una multa da 15mila euro per avere coltivato nella sua azienda un pomodoro senza avere acquistato legalmente il seme della varietà dall’azienda produttrice
Questa sentenza è la cartina di tornasole di un mondo che ha perso il suo legame con la terra e non ha vergogna nell’applicare una pena così enorme perché ha scisso per sempre la relazione simbolica tra gli agricoltori del passato e quelli di oggi. Le battaglie sulle sementi, infatti, sono spesso state combattute tra ditte sementiere senza coinvolgere gli agricoltori. L’avvento degli Ogm e delle biotecnologie negli anni 90 ha cambiato le carte in tavola ma ancora in Italia non avevamo visto il lato oscuro della proprietà intellettuale in azione. Mi spiego: valeva una specie di codice non scritto per cui se la ricerca, pubblica e privata, ha usato come materia prima le sementi prodotte dagli agricoltori nel corso della storia senza alcuna ricompensa, allora gli agricoltori di oggi dovrebbero avere una sorta di riconoscimento di questo debito morale. Questo è uno dei motivi per cui le varietà moderne non sono protette da un vero e proprio brevetto industriale ma da un sistema più “leggero” chiamato privativa vegetale.
La sentenza ci indica, inoltre, dove sta andando la nostra agricoltura: anche nei settori di punta i margini sono così stretti che si fa fatica a rispettare i sempre più rigidi e costosi sistemi di proprietà intellettuale. L’innovazione varietale privatizzata costa troppo rispetto al sistema produttivo e per far rispettare le regole le ditte sementiere ricorrono a società di consulenza specializzate nel controllo della proprietà intellettuale (oltre all’Aib citata prima, ricordiamo anche la francese Sicasov, sicasov.com) per scovare e punire gli agricoltori fuorilegge. Uno scenario inquietante. Per scappare a questa morsa agli agricoltori non resta altro che costruire nuovi sistemi sementieri reinventando la ricerca varietale per dar vita ad altri modelli agricoli disconnessi dai monopoli della filiera industriale. Solo che da soli non possono farcela, hanno bisogno del supporto consapevole di noi cittadini.
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