Mai dire Mais
Quando nel 1949 l’Informatore Agrario di Verona pubblicava i controversi risultati della campagna maidicola del 1948, non poteva immaginare che le deduzioni empiriche dell’anonimo agricoltore, che raccontava i pochi pregi e molti difetti dei nuovi ibridi di mais statunitensi, fossero ancora attuali dopo più di 70 anni. Malgrado questo “faticoso” debutto, e nonostante le varietà ibride di mais richiedessero abbondanti apporti di mezzi tecnici e maggiori costi, le superiori produzioni unitarie ne decretarono il successo in tutte le aree fertili del Paese. Questo risultato condusse all’abbandono di decine di varietà locali presenti in Italia prima della Seconda guerra mondiale, al sostanziale disinteresse da parte della ricerca agricola verso il mais per uso umano e alla riduzione dell’areale di coltivazione delle varietà locali nei territori meno fertili, laddove potevano ancora competere per rusticità e adattamento rispetto alle varietà moderne. La sostituzione si è realizzata malgrado i nuovi ibridi non si prestassero per gusto e composizione organolettica al consumo umano. Tale limite contribuì al radicale cambiamento della dieta degli italiani nella prima metà del XX secolo, limitando la consuetudine del consumo di mais a nicchie regionali. Invertire questo processo vuol dire ripartire dal seme per ripensare a un modello differente di maidicoltura, adatta alla coltivazione in regime biologico e biodinamico e per il consumo umano, alimentando quella conoscenza sulle varietà locali interrotta dall’avvento degli ibridi.
È con questo intento che, da alcuni anni, Rete Semi Rurali ha lanciato un programma di ricerca partecipata dedicato al mais. Grazie alla collaborazione con il CREA di Bergamo, che detiene la più grande collezione di germoplasma di mais locale d’Italia, al supporto del progetto del MIPAAF sulle Risorse Genetiche Vegetali (RGV/FAO) e la collaborazione scientifica di Salvatore Ceccarelli nel 2017 è stata lanciata un programma di miglioramento genetico partecipativo (PPB – Participatory Plant Breeding) che ha consentito di osservare e valutare 173 diallelici, ovvero la discendenza filiale di seconda (F2) e terza (F3) generazione ottenuta dall’incrocio tra due varietà locali italiane, europee o messicane. Lo schema sperimentale adottato era stato predisposto in modo da essere suddiviso in 38 “blocchi incompleti” che hanno dato la possibilità ad ogni agricoltore partecipante di seminare solo una parte dell’esperimento, 10 parcelle anziché le 380 previste dal modello sperimentale, facilitando così la loro partecipazione grazie ad un ridotto investimento di superficie e di gestione del materiale in campo. Il mais è stato quindi seminato in 38 aziende gestite in regime biologico in 12 regioni italiane, mentre l’esperimento completo – 380 parcelle – è stato replicato presso il CREA Bergamo. Ogni agricoltore ha contribuito alla valutazione partecipata delle parcelle tramite la compilazione di una scheda di campo. Da questo primo anno sperimentale, e unicamente sulla base delle indicazioni fornite dagli agricoltori nei differenti contesti agricoli e regionali, sono stati scelti 27 diallelici, prevalentemente di varietà locali italiane, che sono stati riseminati per un’ulteriore stagione di valutazione da 16 agricoltori in 10 regioni italiane in comparazione con le corrispettive varietà locali non incrociate, utilizzando ancora una volta il disegno sperimentale a blocchi incompleti.
Allo stesso tempo, la decisione della Commissione Europea sul materiale eterogeneo (2014/150/EU) permetteva di ipotizzare anche per il mais un’ulteriore evoluzione di questo materiale: la costituzione di una popolazione evolutiva da incroci in libera impollinazione. Così, nel 2018 le stesse 27 tipologie sono state miscelate in modo che tutti i diallelici fossero presenti con un uguale numero di semi, ottenendo una popolazione “ponderata” che è stata seminata simultaneamente in un’azienda al nord ed una al sud Italia, in modo da costituire due differenti nuclei che seguissero percorsi di adattamento differenziati. Al miglioramento genetico partecipativo abbiamo aggiunto la componente evolutiva. I due siti di riproduzione e adattamento locale si trovano nelle provincie di Vicenza e Caserta e, sin dal primo anno, hanno ospitato incontri di scambio e confronto per gli agricoltori di queste aree.
Il materiale riprodotto nelle due aziende “madri” è distribuito su richiesta, in piccole quantità, a seconda degli areali, in modo da favorirne l’adattamento secondario. Ad oggi partecipano al programma 11 aziende agricole, in attesa di estendere la sperimentazione ad altri areali e contesti climatici in funzione del materiale disponibile.
Questa ricerca ha come obiettivo quello di far trovare pronto il settore alle aperture contenute nel nuovo regolamento sull’agricoltura biologica, che ha speciali deroghe per la commercializzazione di sementi di materiale eterogeneo. Lavorare sulle popolazioni di mais per il consumo umano è una formidabile opportunità per far evolvere la coltivazione e la ricerca su una specie che dal dopoguerra si sono concentrate su tecniche di produzione ad alta intensità e sull’uso di ibridi. L’incremento della domanda di produzioni biologiche e la diversificazione dell’uso del mais (ad esempio per animali di corte o prodotti gluten-free) hanno bisogno di un rinnovamento del sistema di produzione maidicolo riportando la diversità genetica al centro dello sviluppo di questo importante comparto agricolo.