L’agricoltura intensiva è la principale causa della scomparsa degli habitat. Serve un nuovo paradigma agroecologico basato sulla complessità.
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 259 – Maggio 2023
Il mese di maggio vede la ricorrenza di due date importanti. Il 20 si celebra la Giornata nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, istituita dalla legge 194/2015 intitolata “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare”. Il 22, invece, cade la Giornata mondiale della biodiversità, istituita dalla Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). La vicinanza tra queste due date è casuale, ma fortemente simbolica e politica: agricoltura e biodiversità sono mondi connessi uno all’altro, anche se nel corso del Novecento lo abbiamo dimenticato.
“L’agricoltura rappresenta una minaccia senza precedenti per la biodiversità in tutto il mondo -si legge sul sito della Cbd-. L’intensificazione della produzione alimentare sta danneggiando il nostro ambiente attraverso la conversione degli habitat naturali in monocolture, il degrado del suolo, il consumo smodato di acqua e l’uso insostenibile di pesticidi e fertilizzanti”.
Insomma, ci stiamo letteralmente “mangiando” il mondo nel quale viviamo, in un circolo vizioso dal quale non riusciamo a uscire e che produce obesità nei Paesi ricchi, senza risolvere il problema della fame in quelli poveri.
Certo, l’agricoltura può anche essere parte della soluzione, come raccontiamo in questa rubrica, ma sarebbe necessario un cambio di prospettiva e di analisi che ancora non si vede all’orizzonte né attuato nelle politiche agricole. Troppo spesso queste ultime sono ostaggio di dinamiche settoriali, che mirano a mantenere lo status quo, senza avere quella visione di lungo periodo che dovrebbe legare i sistemi agricoli a quelli alimentari, e quindi alla salute, e allo spazio naturale non coltivato intorno a noi. Insomma, una visione in grado di rovesciare il paradigma riduzionista ed economicista dell’agricoltura industriale, frutto del pensiero novecentesco, in nome di un nuovo paradigma agroecologico, basato su complessità, olismo e diversità.
Le specie animali e vegetali a rischio estinzione sono 41mila, secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn).
Un articolo pubblicato su Nature Food nel gennaio 2023 (“Reframing the local-global food systems debate through a resilience lens”) mette proprio la diversità in cima ai sette principi sui cui costruire i sistemi alimentari del futuro. Il tema, sostengono gli autori, non è tanto cercare di capire se è meglio il modello locale o globale di agricoltura (ognuno dei due può esserlo in contesti determinati e diversi), ma incoraggiare la diversità a tutti i livelli, lungo tutta la filiera alimentare.
Ovviamente, non si tratta solo di lavorare sulle pratiche, ma, soprattutto, sulle politiche, sui sistemi di governance e sulle dinamiche commerciali, dominate da veri e propri oligopoli e monopoli. Non a caso, l’articolo discute di governance policentrica e di ampia partecipazione della società civile alle politiche, elementi centrali per bilanciare la concentrazione di potere che viviamo oggi. E qui emerge un nodo dolente, legato al sistema di conoscenze e di informazioni sul funzionamento dei sistemi alimentari. È necessaria, infatti, una vera e propria alfabetizzazione alimentare in grado di rendere consapevoli cittadini e politici, troppo spesso influenzati dalla pubblicità e dalle attività di lobbying dell’industria agroalimentare. Per riallocare il potere tra gli attori della società e al loro interno, ci vuole un doppio percorso: politico dall’alto e sociale dal basso, come rivendicazione di diritti.
Trent’anni fa nel saggio “Monoculture della mente” Vandana Shiva scriveva: “Conservare la biodiversità è impossibile, finché essa non sia assunta come la logica stessa della produzione”, lanciando una sfida che non possiamo più eludere alla nostra società occidentale. Praticare la diversità sarebbe il mondo migliore per dare un senso compiuto alle celebrazioni di maggio.
La concentrazione delle filiere in poche mani ne riduce la capacità innovativa: agricoltori e consumatori sono sempre più tenuti lontano
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 258 – Aprile 2023
È uscito lo scorso febbraio il nuovo rapporto Focus Biobank “Supermercati e specializzati” sul biologico, che conferma l’andamento degli ultimi anni. Il 2022 ha visto un aumento del mercato che ha superato la soglia degli otto milioni di euro, di cui il 40% è legato alle esportazioni. Se si allarga l’orizzonte agli ultimi dieci anni, si vede che i negozi specializzati hanno perso terreno nei confronti della grande distribuzione organizzata (Gdo), come abbiamo già avuto modo di raccontare in questa rubrica. Infatti, oggi la Gdo raggiunge quasi il 50% del totale delle vendite, mentre i negozi specializzati scendono a meno del 20%. Stiamo arrivando ai numeri di Paesi come Francia e Germania dove la soglia del 50% è già stata superata da anni.
Nel periodo del Covid-19 abbiamo assistito a una risalita delle vendite nei negozi, ma il 2022 registra una flessione sia rispetto al 2021 sia al 2020. Insomma, la pandemia non ha modificato le tendenze in corso e la marcia trionfale della Gdo continua con i prodotti a marca del distributore (Mdd) che arrivano a toccare il 20% del totale del fatturato. Stiamo assistendo, cioè, a un’integrazione sempre maggiore delle filiere all’interno della Gdo, in un mercato dove i nomi dei marchi dell’industria agroalimentare o dei produttori scompaiono per lasciare il campo a quelli delle catene della distribuzione.
Questo passaggio, che riguarda sia il biologico sia il convenzionale, è stato fotografato anche nel rapporto dello studio Ambrosetti “L’Italia di oggi e di domani: il ruolo sociale ed economico della distribuzione moderna” uscito a gennaio 2023. Il rapporto mette in evidenza come questo fenomeno abbia permesso agli italiani di contenere l’inflazione in salita di questi mesi grazie ai prezzi contenuti dei prodotti Mdd, con una stima che parla di un risparmio medio per famiglia di 77 euro. Come si capisce, diventa difficile in un momento di crisi come questa, avanzare qualche critica a un modello di distribuzione presentato non solo come efficiente e simbolo di modernità, ma anche in grado di far risparmiare le famiglie.
Tornando al biologico, il numero di negozi specializzati è sceso a 1.240 in tutta Italia, perdendone più di 200 in rapporto al 2017. Di questi, 434 fanno parte di catene specializzate, dove ormai NaturaSì è il leader indiscusso del settore con 368 negozi, seguito a lunga distanza dal mondo del macrobiotico che mantiene i suoi 28 punti vendita (erano 30 nel 2011) chiamati dal 2022 Stile Macrobiotico. Nel caso di NaturaSì assistiamo alla stessa strategia di puntare sui prodotti a marchio, proprio vista nella Gdo.
Il risparmio medio per famiglia nella spesa alimentare tramite l’acquisto di prodotti a marchio della catene della Grande distribuzione organizzata è stato di 77 euro
È triste constatare come il settore distributivo del biologico stia perdendo di diversità, in nome di una concentrazione che non riguarda solo il numero di soggetti della distribuzione, ma risale lungo la filiera per arrivare a controllare tutto il sistema agroalimentare dal seme al piatto. Meno diversità vuol dire meno concorrenza, ma non solo. Vuol dire anche che il suo valore aggiunto viene assorbito in gran parte dalle catene della distribuzione, senza avere un ritorno verso quegli attori sociali che promuovono il biologico e la trasformazione dei sistemi agroalimentari presso i cittadini, e creano innovazione con gli agricoltori nei territori.
Questa estrazione di valore riduce la capacità innovativa del biologico, che dovrebbe fondarsi, è opportuno ricordarlo, su processi di ricerca partecipativi e decentralizzati, ancora poco sostenuti dalla ricerca pubblica. Insomma, agricoltori e cittadini sono sempre più lontani fisicamente e socialmente, anche se sono anni che parliamo dell’importanza della filiera corta, del chilometro zero o del concetto di co-produttori.
La guerra e la crisi economica fanno calare gli acquisti e i negozi specializzati faticano mentre la Gdo regge. Cresce clamorosamente l’hard discount
di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 252 – Ottobre 2022
Dall’8 all’11 settembre si è tenuto a Bologna il Salone internazionale del biologico e del naturale (Sana). Se ormai una serie di padiglioni sono dominati dalla cosmetica bio (in costante ascesa), va sottolineato il ruolo crescente della sezione “Sanatech”. L’obiettivo è di caratterizzare la fiera anche come un momento nazionale di scambio su tecniche e pratiche tra operatori. È importante ricordarsi che non esiste un evento simile e di come, al contrario, sarebbe necessario per diffondere saperi e innovazioni.
Camminando tra gli stand, però, si respirava un’aria pesante: come se una tempesta perfetta avesse colpito il settore. Se, infatti, la crisi dovuta al Covid-19 ha avuto ripercussioni positive con un incremento delle vendite dei prodotti biologici, la guerra in corso, combinando aumento dell’inflazione e dei costi di produzione, sta avendo l’effetto opposto. E questo pessimismo diffuso è stato confermato dall’andamento dei numeri del settore, presentati a Sana. Il centro studi Nomisma e il Sistema di informazione nazionale sull’agricoltura biologica (Sinab) hanno raccontato lo stato dell’arte del biologico nel 2021 e nei primi sei mesi del 2022, confermando alcune tendenze in atto in questi dieci anni, ma registrando anche una flessione dei consumi interni, sia nel 2021 sia nel 2022.
Dal lato delle superfici coltivate e degli operatori biologici la crescita continua, con un incremento del 3%, per cui l’Italia arriva al 17,4% di ettari, diventando uno dei Paesi leader a livello europeo, anche se il traguardo del 25% indicato per il 2030 nella strategia “Farm to fork” della Commissione europea è ancora lontano. Per quanto riguarda i consumi interni, al contrario, la crisi economica si fa sentire: nel 2021 si registra una flessione del 4,6% rispetto all’anno precedente e i primi sei mesi del 2022 confermano questo andamento con un calo dell’1,1%. All’interno di queste percentuali ci sono, però, vincitori e vinti.
La flessione maggiore la registrano infatti i negozi specializzati (-8%) mentre la Grande distribuzione organizzata (ormai definita come Distribuzione moderna, Dm, per sancire l’ineluttabilità di questa tipologia distributiva) regge il colpo (+0,4%) e, addirittura, il mondo degli hard discount registra un clamoroso +13,8% rispetto al 2021. Secondo Nomisma, la Dm pesa ormai per il 57% delle vendite (era il 47% nel 2020), mentre negozi specializzati e altre forme di vendita locali scendono al 42% a fronte del 53% del 2020. Insomma, la crisi del potere di acquisto delle famiglie sta velocizzando un cambiamento epocale in un settore nato sulla base di una forte relazione di prossimità tra produzione e consumo.
Il calo dei consumi di prodotti biologici in Italia nel 2021 rispetto all’anno precedente è stato del 4,6%. Anche i primi sei mesi del 2022 registrano un andamento negativo (-1.1%)
Ma un altro fattore sta avendo un impatto forse ancora maggiore su questa trasformazione: l’aumento dei costi energetici di produzione dovuto alla guerra. La bolletta energetica sta mettendo in crisi soprattutto il mondo della trasformazione artigianale, incapace di far fronte con le proprie risorse economiche a un periodo lungo di contrazione delle vendite e aumento dei costi. Potremmo assistere alla scomparsa di questo tessuto produttivo, fatto di piccole e medie realtà con un forte attaccamento alle produzioni locali, a vantaggio di imprese di maggior dimensioni capaci di assorbire la crisi tramite l’accesso al mondo della finanza. Il fatto che l’export bio sia cresciuto del 16% tra il 2021 e il 2022 è un dato positivo, ma certifica anche la trasformazione che stiamo raccontando. Servirebbe il supporto della politica per non lasciare questi operatori in balìa delle speculazioni di mercato, ed evitare un’ulteriore desertificazione dei nostri territori.
I numeri del bio sono in ascesa costante ma il mercato è più concentrato e influenzato dalla Gdo. Occorre un cambio di passo, aprendosi all’economia sociale. La rubrica della “Rete Semi Rurali” a cura di Riccardo Bocci
A novembre 2020 è stato pubblicato il rapporto di Bio Bank che fotografa il mondo del biologico. Un primo dato emerge chiaramente. Anche in questo periodo di crisi il bio cresce a due cifre: più 11% di vendite rispetto al 2019. In questi anni, però, è cambiato il panorama del mercato del biologico: i negozi specializzati hanno ceduto il passo alla grande distribuzione organizzata (Gdo) e al discount. Nel 2011 l’incidenza della Gdo nel bio era del 27%. Oggi è arrivata al 47%, e, in maniera speculare, quella dei negozi è scesa dal 45 al 21%. Inoltre, se compariamo le vendite in milioni di euro, dal 2011 ad oggi la Gdo è passata da 545 milioni di euro a 2 miliardi, mentre i negozi bio sono rimasti più o meno costanti da 895 agli attuali 924 milioni di euro. Aumenta anche il numero di prodotti bio a marchio del distributore, elemento che indica il controllo delle filiere da parte della distribuzione, con Coop leader attuale del mercato con 750 referenze. In parallelo, nel mondo dei negozi specializzati stiamo assistendo alla concentrazione delle catene distributive, con EcorNaturaSì che ha acquisito i negozi Biobottega e Piacere Terra, arrivando a un totale nazionale di 297 supermercati tra franchising e di proprietà.
4.358: nel 2020 le vendite di prodotti bio sono stimate in 4.358 milioni di euro sul mercato interno e 2.619 milioni per l’export (Fonte: Bio Bank)
Da un lato non si può che registrare positivamente la scelta bio del consumatore italiano, ma dall’altro è necessario fare alcune riflessioni. Il ruolo crescente di Gdo e discount, e la scomparsa dei piccoli negozi, pionieri storici del bio, sono indici di una costante tendenza alla concentrazione del settore e, se così si può dire, di una sua “convenzionalizzazione”. Infatti, il bio delle origini non aveva a cuore solo la certificazione del prodotto, ma si faceva promotore di una spinta etica e sociale per cambiare l’agricoltura convenzionale, basata su uniformità, industrializzazione, compressione della forza lavoro, drenaggio del valore aggiunto verso le ultime parti della filiera (trasformazione e commercio), costi ambientali non contabilizzati nel prodotto e prezzi bassi pagati agli agricoltori. Questa spinta non è più garantita dall’attuale certificazione biologica. Inoltre, la sfida di diversificare i sistemi agricoli a partire dal seme mal si concilia con l’uniformità del panorama del settore distributivo.
Come uscire da questa situazione? Come evitare che i valori del bio restino soffocati dal suo stesso successo commerciale? Sono necessari una nuova visione e un cambio di passo da parte degli attori dei negozi specializzati, che, invece di seguire metodi, strategie e messaggi pubblicitari della Gdo, dovrebbero rilocalizzarsi nei territori facendo rete con i soggetti sociali lì attivi. Aprirsi a un’economia finalmente sociale che si faccia carico di chi anima culturalmente la relazione città/campagna. Non mero marketing, ma sostegno a quei processi sociali che stanno contribuendo a fare innovazione nelle aree rurali. Anche in questo caso la parola chiave è diversificare: favorire la diversità di approcci, esperienze, pratiche e mercati, e trasformarle in cultura civica diffusa. Non è una sfida facile. Presuppone la capacità di rimettere in gioco il modello di business degli attori economici.
Il rischio, se falliremo, è di finire come negli Stati Uniti, dove, ci ammoniva già 12 anni fa Michael Pollan nel suo libro “Il Dilemma dell’Onnivoro” (Adelphi, 2008), si produceva formaggio biologico da latte in polvere bio proveniente dall’Australia. Tutto rigidamente certificato, ma socialmente e ambientalmente insostenibile e assolutamente insapore. Ma chissà se noi consumatori saremo poi in grado di accorgecene.
Riccardo Bocci è agronomo. Dal 2014 è direttore tecnico della Rete Semi Rurali, rete di associazioni attive nella gestione dinamica della biodiversità agricola
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