L’innovazione agricola non si valuta dal numero di brevetti registrati

L’innovazione agricola non si valuta dal numero di brevetti registrati

Per favorire modelli alternativi è necessario che il mondo della ricerca riscopra il suo ruolo sociale, smarcandosi dal mercato

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 250 – Luglio/Agosto 2022

Sono passati sei mesi da quando il nuovo regolamento sull’agricoltura biologica è entrato in vigore: il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf) deve ancora redarre il facsimile della notifica per il Materiale eterogeneo biologico (Meb) e sembra che questa innovazione per ora non stia interessando il mondo del biologico. Sono pochi gli attori che si stanno organizzando sul lato produttivo/commerciale e ancora meno le ditte sementiere pronte a lanciarsi in questa nuova esperienza. Un interesse maggiore sta nascendo nel mondo della ricerca pubblica più vicino agli agricoltori biologici. Sono diversi, infatti, i centri di ricerca e le università che da alcuni anni stanno sviluppando popolazioni o miscele che, in alcuni casi, sono già in produzione in alcune aziende agricole. 

La diversificazione dei nostri sistemi agricoli, alimentari e delle relative diete non è che agli albori di quella che potrebbe essere una rivoluzione vera e propria del settore. Vediamone alcuni aspetti. Uno dei tratti distintivi della diversità del Meb è che non può essere coperto da proprietà intellettuale, come invece avviene per le normali varietà uniformi. Questo fatto comporta un problema sia per le ditte sementiere sia per la ricerca pubblica. Le prime, infatti, devono rivedere il loro sistema di competizione all’interno del settore, normalmente basato su protezione varietale, accordi di licenza per la commercializzazione delle sementi e royalties per recuperare i costi di ricerca e sviluppo delle varietà. Essendo il Meb in pubblico dominio, tutto questo modello deve essere ripensato.

Stesso discorso si applica alla ricerca pubblica, avvicinata al mercato da anni di riforme liberiste e in balia di un sistema di valutazione della produttività del singolo ricercatore sempre più basato sulla proprietà intellettuale. La sua carriera è ormai in funzione del numero di brevetti ottenuti o di varietà protette iscritte al catalogo, in un’ottica quasi commerciale del ruolo della ricerca pubblica. Vali solo se produci innovazioni “brevettabili” che a cascata portano “soldi” alla ricerca, perdendo completamente di vista il suo ruolo sociale e pubblico, inteso come bene comune della società. Come si capisce, il nuovo mondo legato alla diversità del Meb prevederebbe un supporto completamente diverso da parte della ricerca pubblica: integrata nel processo di ricerca partecipativa e decentralizzata con tutti gli attori delle varie filiere, disposta a investire se stessa nei processi sociali di innovazione, capace di supportare tecnicamente e scientificamente questi processi in un dialogo continuo con gli attori coinvolti.

Un campione di materiale eterogeneo biologico è stato notificato al ministero delle Politiche agricole da Rete Semi Rurali: il frumento tenero 180 sviluppato dall’Associazione veneta dei produttori biologici e biodinamici

La questione però nasce spontanea: come valorizzare quei ricercatori che decidono di seguire questa strada visto che i risultati della loro ricerca non sono quei prodotti brevettabili con cui dovrebbe essere valutati? Come convincere le politiche sulla ricerca agricola che non esiste solo l’innovazione di prodotto (come ad esempio droni e agricoltura di precisione) ma che il pubblico potrebbe svolgere un importante ruolo di supporto e integrazione all’innovazione sociale (e poi anche di processo e prodotto) attuata da molte aziende biologiche? Come far capire che il valore maggiore della ricerca pubblica è il suo capitale sociale e non i prodotti che sviluppa per il mercato? 

In un momento difficile per la ricerca, stretta tra mercato e critiche di affarismo e gestione clientelare, dobbiamo capire che questo è uno spazio sociale da difendere, aprendo un dibattito nella società sul suo ruolo strategico nell’innovazione in agricoltura. Da questa strada passerà il futuro dei modelli agricoli alternativi.

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In agricoltura i brevetti soffocano l’innovazione

In agricoltura i brevetti soffocano l’innovazione

Il sistema della proprietà intellettuale minaccia l’agro-biodiversità nel settore delle sementi. Il caso del “salvataggio” di Verisem

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 240 – Settembre 2021

In maniera subdola e silenziosa il brevetto si sta imponendo nel settore delle sementi. Sempre di più le multinazionali lo usano per proteggere le nuove varietà, sconvolgendo il mondo agricolo e mettendo in crisi i due pilastri del sistema della proprietà intellettuale usati finora per proteggere le varietà (la cosiddetta privativa vegetale): l’esenzione della ricerca e il privilegio dell’agricoltore. Infatti, la privativa data a chi produce nuove varietà ha due “garanzie” che non si trovano nel brevetto: chiunque può usare l’innovazione come base per produrre nuove varietà e l’agricoltore può riseminare in azienda le sementi prodotte da varietà protette (con una serie di limitazioni). Il brevetto, in più, si applica non solo alle sementi, ma arriva a coprire i prodotti ottenuti da queste. Insomma, un super monopolio dal campo al piatto.

Il rapporto 2021 della campagna “No patents on seeds” (no-patents-on-seeds.org) ci racconta questo processo, evidenziando come le big companies stiano usando lo strumento brevettuale per proteggere le nuove varietà, anche quelle prodotte da miglioramento genetico classico senza l’uso delle biotecnologie. Nel 2020 delle circa 300 domande presentate all’Ufficio europeo dei brevetti, 50 riguardano varietà derivate da procedimenti classici di miglioramento genetico.

Come avrebbe detto lo scrittore Eduardo Galeano, viviamo in un mondo alla rovescia: chi propaganda il libero mercato allo stesso tempo vuole una tutela della proprietà intellettuale sempre più forte e monopolistica. Così monopolistica che finisce per asfissiare il processo innovativo invece di favorirlo. Eppure, non è stato sempre così. Nella prima metà dell’Ottocento i pensatori liberali, in nome del libero mercato, non volevano riconoscere un monopolio agli innovatori: il loro unico vantaggio sarebbe stato il fatto di arrivare prima sul mercato.

300 domande di brevetto su varietà vegetali depositati nel 2020 all’Ufficio europeo dei brevetti.

Mentre si racconta la favola del libero mercato, l’innovazione varietale in agricoltura viene rinchiusa dentro monopoli, detenuti da compagnie sempre più grandi e accorpate in grado di determinare e controllare tutta la filiera fino a noi cittadini. Questo modello, inoltre, sta favorendo lo sviluppo di ditte sementiere multinazionali che agiscono di fatto a scapito di un sistema di piccole imprese locali. Il gioco di scatole cinesi tra società multinazionali finirà per distruggere il già debole tessuto economico della nostra industria sementiera. Qualche anno fa è stato il caso della Produttori Sementi Bologna, storico marchio specializzato nei cereali, finito prima in pancia a Syngenta e poi a ChemChina.

In questi mesi è in corso un dibattito per “salvare” Verisem, conglomerato che nasce come italiano, che detiene marchi storici come Franchi e Hortus sementi, ma che ormai è una multinazionale. La già citata ChemChina ha messo sul piatto 200 milioni di euro, ma si sta costruendo un consorzio per

mantenere l’italianità dell’impresa con capofila Bonifiche Ferraresi. Ma è veramente garantire l’italianità la soluzione? In realtà i buoi sono già scappati dal recinto da un pezzo, Verisem è già sotto controllo di un fondo di investimenti. Non è tanto importante garantire l’italianità della proprietà, quanto ripensare dalle fondamenta il processo di innovazione varietale e i diritti di proprietà intellettuale a esso legati. Va rimesso in discussione il sistema monopolistico di protezione legato al brevetto e con esso a cascata il business model delle ditte sementiere. Solo così potremo costruire nuovi sistemi sementieri locali diversificati e immaginare un futuro di ditte locali in grado di valorizzare l’agrobiodiversità prodotta dalla ricerca partecipata e decentralizzata.

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Revocato il brevetto EP1962578 sul melone a Monsanto

20 gennaio 2016

 L’European Petent Office ha revocato il brevetto EP1962578 sul melone a Monsanto per motivi tecnici. L’ufficio europeo rilascia il brevetto di ufficio e accoglie successivamente eventuali opposizioni con cui il brevetto può essere revocato. Un’ampia coalizione ha agito a livello legale per raggiungere questo risultato. No Patent on Seeds è la campagna di cui è fondatrice anche RSR che si occupa nello specifico di monitorare e operare in questo campo.

 Una parziale ma importante vittoria.

 Di seguito il comunicato stampa di No Patent on Seeds

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