Le diversità colturali europee sono in pericolo

Le diversità colturali europee sono in pericolo

Per salvare la biodiversità occorre affrancarsi dal paradigma dell’agricoltura industriale. A Bruxelles si sta lavorando a una strategia ad hoc

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 243 – Dicembre 2021

A fine novembre è stata presentata a Bruxelles la proposta per una Strategia per la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità vegetale agricola, elaborata dal Programma cooperativo europeo sulle risorse genetiche vegetali (ecpgr.cgiar.org), una rete di centri di ricerca e banche del germoplasma. Si tratta di un tentativo ambizioso che vuole definire un vero e proprio piano di azione per far fronte a una situazione definita a rischio. Vediamo quali sono i problemi sollevati.

Molte banche europee del germoplasma (conservazione ex situ) non svolgono il loro compito a causa dell’insufficiente coordinamento a livello comunitario e della mancanza di risorse, capacità, infrastrutture e controlli di qualità a livello nazionale. Il cambiamento climatico e lo sfruttamento del territorio stanno minacciando seriamente la biodiversità naturale, tra cui i parentali selvatici delle specie agrarie (conservazione in situ).
Infine l’agrobiodiversità gestita nelle aziende agricole (conservazione on farm) è minacciata dai cambiamenti nell’uso dei terreni agricoli indotti dai sistemi di produzione industriali che sostituiscono le varietà tradizionali e locali con nuove varietà uniformi, così come dalla regolamentazione e dagli ostacoli alla commercializzazione e all’uso di varietà diversificate.

Insomma, la strategia ci racconta che, malgrado la buona volontà di molti attori del settore, le diversità colturali e naturali europee sono in pericolo, non solo come effetto collaterale della modernità ma anche a causa di politiche sbagliate, risorse insufficienti, legislazioni troppo vincolanti e mancanza di coordinamento istituzionale.
Senza un’azione correttiva immediata, la perdita di biodiversità aumenterà, con un impatto negativo sui sistemi agricoli del futuro, perché stiamo compromettendo la nostra capacità di fare miglioramento genetico delle piante agricole.

1950
In quegli anni un virus ha attaccato i campi di orzo negli Stati Uniti. Le piante erano particolarmente vulnerabili all’infezione a causa della loro uniformità.

Non a caso, il genetista Paul Gepts scriveva negli anni Novanta che il miglioramento genetico, così come realizzato negli ultimi 50 anni, taglia alla base l’albero su cui dovrebbe crescere: la diversità. Il motivo è semplice: la ricerca per il modello agricolo industriale usa la diversità per produrre nuove varietà che però sono uniformi, distinte e stabili e quindi nel lungo periodo espelle diversità dai sistemi agricoli. Il successo di questo modello e la sua esportazione su scala planetaria stanno distruggendo quei sistemi agricoli diversificati dove nel tempo si sono evolute le varietà locali, utilizzate come materia prima per il miglioramento genetico stesso. Dove andremo, quindi, a recuperare diversità quando tutta l’agricoltura sarà uniforme e industrializzata? Per visualizzare il problema basta fare un esempio. Negli anni Cinquanta quando l’agricoltura statunitense ha avuto una crisi dovuta a un virus che attaccava le piante di orzo (tutte uguali e uniformi nei campi e quindi molto vulnerabili), la ricerca ha trovato la resistenza a tale malattia nelle varietà locali coltivate in Etiopia. Quando anche questi agricoltori saranno convertiti all’uniformità e acquisteranno tutti gli anni sementi moderne prodotte dalle ditte sementiere, dove andremo a cercare quelle resistenze o quelle caratteristiche necessarie in futuro?

La risposta è evidente: bisogna uscire dal paradigma dominante dell’agricoltura industriale uniforme, diversificando i sistemi agricoli e rimettendo in gioco l’evoluzione della diversità in campo. Non solo per noi oggi, ma per i nostri figli domani.

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A rischio il patrimonio delle banche delle sementi

A rischio il patrimonio delle banche delle sementi

La riduzione delle risorse pubbliche compromette la sopravvivenza delle strutture che conservano diversità poco conosciute. Terza parte

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 228 – Luglio/Agosto 2020

Nella rubrica scorsa abbiamo descritto le Case delle sementi, nuove realtà sociali che svolgono un ruolo chiave per avere accesso a quella biodiversità espulsa dal mercato sementiero. A monte esistono le “banche delle sementi” o del germoplasma: strutture pubbliche deputate alla conservazione delle diversità, poco conosciute. Infatti, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, quando le varietà locali sono state progressivamente sostituite da quelle moderne, università e centri di ricerca agricola hanno cominciato a raccogliere le sementi che sparivano dai campi e dalla memoria dei contadini. Nacque così quella che chiamiamo conservazione ex-situ perché fatta in frigoriferi fuori dall’areale di coltivazione.

Ma come fare ad avere accesso a queste sementi? Di chi sono? Esiste un trattato internazionale negoziato all’interno della FAO che si occupa del sistema di regole per facilitare l’accesso a queste varietà rimaste congelate nel passato: sono di pubblico dominio, quindi non privatizzabili tal quali; gli agricoltori possono richiederle per uso diretto o come base di partenza per lavori di miglioramento genetico; non si paga per averle (salvo in alcuni casi i costi di spedizione) e in cambio si firma il cosiddetto accordo standard di trasferimento materiale. Tutto a posto penserete. In realtà no.

56.000 sono i campioni di sementi conservati presso la banca del CNR di Bari

Questo patrimonio è pericolosamente a rischio perché negli ultimi anni le banche pubbliche stanno perdendo d’interesse per il modello agricolo industriale: la ricerca privata ha le sue collezioni varietali (cui non si può accedere) e il processo di de-materializzazione dell’informazione genetica (che ha nella biologia sintetica la sua sirena più ammaliante) ha sempre meno bisogno delle risorse fisiche (o si illude di averne) per produrre innovazione. Il risultato è la riduzione delle risorse pubbliche per queste strutture e lo spaesamento di chi ci lavora: non sono più cinghia di trasmissione del settore privato ma ancora non hanno acquisito un nuovo ruolo all’interno della società.

L’Italia è un caso emblematico da questo punto di vista. La più grande banca pubblica, gestita dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) a Bari, è stata chiusa per vari anni, invischiata in una serie di cause legali tra direttori. Ciò ha rischiato di compromettere tutto il materiale conservato e, comunque, ha impedito la sua funzione primaria di garantire l’accesso al materiale conservato per oltre un decennio. Sorte più triste sta toccando all’Istituto Nazareno Strampelli di Lonigo in Veneto. Dopo aver raccolto gran parte della diversità di mais e frumento della Regione e aver riportato alcune di queste varietà in coltivazione, è stato quasi cancellato con un colpo di penna: personale spostato ad altri servizi, struttura chiusa, sementi nei congelatori finché qualcuno non staccherà la spina. Il tutto è avvenuto e avviene nel silenzio assordante della politica e dei media, anche quelli sempre pronti a fare comunicati sull’importanza del cibo made in Italy.

È venuto il momento di lanciare una sfida a questo sistema in crisi e di assumerci da cittadini la responsabilità di un patrimonio che è nostro nello stesso modo in cui lo è un’opera d’arte o un monumento. Case e banche delle sementi devono pensare insieme un’ambiziosa alleanza, tra enti pubblici e reti sociali, per far uscire le sementi dai frigoriferi e rimettere in gioco la creatività degli agricoltori e i processi evolutivi nei campi. Prima che sia troppo tardi.

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Banca dei semi in Norvegia

Le sementi tra Noè e Cerere
Riflessioni a margine della notizia sulla creazione di una banca mondiale delle sementi in Norvegia

Dopo anni di trattative, dal lontano 1981 quando se ne parlò per la prima volta, e a soli 3 anni dalla prima riunione dell’Organo di Governo del Trattato Internazionale sulle Risorse Genetiche Vegetali per l’Alimentazione e l’Agricoltura gestito dalla FAO, il governo Norvegese è riuscito a realizzare il suo “sogno”

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