La privatizzazione dei saperi che danneggia l’agrobiodiversità

La privatizzazione dei saperi che danneggia l’agrobiodiversità

Sigle come Dop, Igp, Stg e Pat rischiano di essere gusci vuoti che nascondono prodotti ormai integrati con la filiera agroindustriale

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 247 – Aprile 2022

Prodotti agricoli tradizionali (Pat), Denominazioni di origine protetta (Dop), Indicazioni geografiche protette (Igp), Specialità tradizionali garantite (Stg) sono solo alcuni dei loghi, marchi e sigle di qualità, tradizione e identità territoriale che sempre di più affollano gli scaffali, con l’obiettivo di differenziare alcuni prodotti rispetto al modello di consumo industriale e massificato. Senza che ce ne rendessimo conto anche la nostra identità nazionale ha cominciato a essere ricostruita nelle narrazioni pubblicitarie attraverso il cibo che mangiamo: il made in Italy e l’italianità sventolate nelle etichette diventano l’unica certezza cui aggrapparci per ridare senso al concetto di cultura nazionale, ormai annacquato nella nostra società fluida e post-ideologica. Il cibo, il prodotto tipico (la cui tipicità è tutta dimostrare) rimangono l’unico baluardo con cui proteggerci di fronte al pensiero unico globalizzante. 

Dal livello comunale a quello regionale, gli Enti locali fanno a gara a chi vanta più indicazioni geografiche (Dop, Igp e Stg) o Pat, in una battaglia che prima è nazionale (dove le Regioni competono tra di loro) e poi europea (dove i vari Stati sono in competizione tra loro). È in atto un processo di patrimonializzazione e privatizzazione di saperi, conoscenze, tecniche, ricette e prodotti elaborati dalle collettività locali nel corso del tempo. Che oggi vengono cristallizzati in specifici disciplinari per essere lanciati nella competizione sui mercati mondiali.

Sono 5.128 i Prodotti agricoli tradizionali (Pat) inclusi in un apposito elenco, istituito dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali in collaborazione con le Regioni

Due sono gli elementi di cui tener conto in questo processo. L’uso di questi strumenti, se da un lato dovrebbe tutelare quelle tradizioni locali non in grado altrimenti di reggere la competizione, dall’altro diventa un mezzo di esclusione tra chi è dentro e fuori dal sistema di regole. Si creano comunità chiuse con poca o nessuna capacità di dialogare con l’esterno. L’evoluzione è cancellata dalla storia dell’alimentazione, dimenticando che la nostra gastronomia è così ricca perché frutto di incontro e contaminazione diverse. Inoltre, il marchio e il disciplinare diventano, spesso, gusci vuoti che rappresentano l’idea del prodotto da proteggere (il suo nome o localizzazione geografica) ormai integrato completamente nella normale filiera agroindustriale.

Ad esempio, le tecniche di produzione vengono modificate per favorire una loro industrializzazione o le varietà locali vengono sostituite con quelle commerciali, più produttive e facili da gestire. Questo è possibile perché i cittadini consumatori non sono più in grado di “capire” le supposte qualità intrinseche di quel prodotto. Il libro “Gastronazionalismo” (peoplepub, 2021 – ne avevamo parlato nell’inchiesta dedicata all’aceto), cerca di fare il punto su questa situazione, definita heritage fever, che nel nostro Paese gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo delle politiche agricole.  Così scrivono gli autori: “Costruire un valore attorno alla cultura, nel bene e nel male, si traduce in un’opera di mercificazione, traducendo la conoscenza in moneta, ma anche in una mummificazione della conoscenza stessa, che si assume derivata da un processo continuo di sviluppo antropologico, al quale però viene posto un limite temporale. Per difendere il patrimonio vivente lo si mette in formalina, ovvero se ne decreta la morte”.

E la mummificazione la vediamo tutti i giorni all’opera nel marketing dell’agrobiodiversità a partire dai termini usati: gli agricoltori custodi delle antiche varietà sono un ossimoro che riflette questa contraddizione tra tradizione e modernità. Non è facile uscire da questa impasse culturale: bisogna battere strade nuove per ricostruire culture, colture e comunità locali in grado di evolvere nel tempo in un sistema aperto di scambio di conoscenze, saperi, pratiche e varietà.

credits ALTRECONOMIA

https://altreconomia.it

Se la Politica agricola comunitaria rimane agli anni Sessanta

Se la Politica agricola comunitaria rimane agli anni Sessanta

Ai negoziati di Bruxelles sulla nuova Pac 2023-2027 hanno prevalso vecchi interessi, opposti al Green Deal. Ora la palla passa agli Stati. 

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 232 – Dicembre 2020

La Politica agricola comunitaria (Pac) è storicamente il bilancio più importante dell’Unione europea e ha modellato i nostri sistemi agricoli e relativi paesaggi. Nata per sostenere la modernizzazione dell’agricoltura europea e il reddito delle aziende, oggi la Pac si trova schiacciata tra il vecchio che non cambia e il nuovo che non riesce a imporsi. Infatti il nuovo modello agricolo frutto delle positive interazioni tra produttori e cittadini, basato su biologico, biodinamico, agroecologia, filiere corte, riscoperta e valorizzazione della diversità coltivata fa fatica a emergere nelle politiche. Ristrutturare le filiere agroalimentari non è impresa facile e soprattutto non è indolore. La Pac potrebbe svolgere un ruolo positivo nell’accompagnare la transizione verso un modello agroecologico ma per farlo sarebbe necessaria una maggiore consapevolezza degli attori in gioco (sindacati agricoli, Stati membri, mondo scientifico) che ancora non si intravede all’orizzonte. Negli anni Cinquanta e Sessanta quando la Pac ha cominciato a essere negoziata, l’emergenza produttiva post-bellica, la necessità di garantire un’uscita programmata di forza lavoro verso il crescente settore industriale e, allo stesso tempo, di avere prezzi bassi al consumo, hanno permesso di creare quello che a oggi è stato il più ambizioso patto sociale del continente europeo: un’alleanza tra cittadini e agricoltori per garantire un settore economico particolare come quello agricolo. Allora era semplice mettere d’accordo i vari attori, tutti puntavano alla stessa cosa: modernizzare l’agricoltura in un’ottica produttivista. Politica e corpi sociali (i sindacati) avevano questo obiettivo comune, e scienza e tecnica fornivano gli strumenti con cui attuare il passaggio dal mondo contadino a quello industriale.

365 miliardi di euro è il budget che avrà a disposizione la prossima Pac 2023-2027, pari a circa il 29% del futuro bilancio complessivo dell’Unione europea

Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti. Abbiamo visto produzioni in eccedenza andare al macero, lo spreco alimentare crescere a dismisura, agricoltori pagati anche se non producevano più, le esportazioni europee causare concorrenza sleale nei Paesi del Sud del mondo. L’esplosione delle biotecnologie e l’avvento degli Ogm, inoltre, hanno cambiato e decostruito il ruolo della scienza nelle nostre società, non considerando più il fare scienza come un processo neutrale e predeterminato. Insomma, il quadro si è complicato, siamo diventati una società complessa dove la stessa funzione dell’agricoltore si è evoluta mettendo in crisi il sistema delle rappresentanze.

Purtroppo i negoziati a Bruxelles nei mesi di ottobre e novembre 2020 volti a costruire la Pac 2023-2027 ci raccontano che la politica non ha ancora imparato a gestire questa complessità e considera l’agricoltura un tema meramente settoriale. Le innovazioni contenute nella strategia Farm to Fork, nel programma Green Deal della Commissione e nella strategia europea per la biodiversità al 2030, infatti, non sono diventate strumenti operativi della nuova Pac. La visione di una nuova agricoltura si è impantanata nella palude dei vecchi interessi che puntano a rispondere alla crisi ambientale, economica e sociale dei sistemi agroalimentari nel solito modo come se fossimo sempre negli anni Sessanta: aumentare l’intensificazione a livello tecnologico, economico, produttivo e sociale. Ora la partita verrà giocata a livello degli Stati membri per elaborare i futuri piani strategici nazionali. Saremo capaci in Italia di immaginare un nuovo patto sociale tra mondo agricolo e società nel suo insieme in grado di costruire una politica alimentare e non solo agricola basata sull’interrelazione tra diversità, agricoltura, dieta e salute?