A tutela del biologico

A tutela del biologico

La posizione di ECO-PB sulla bozza di regolamento Europeo sulle Nuove Tecniche Genomiche

di Consorzio per il Miglioramento Varietale in Biologico (ECO-PB) – 01 Novembre 2023

ECO-PB è preoccupato per il contenuto della proposta di de-regolamentazione dei cosiddetti nuovi OGM. Chiede che siano introdotti cambiamenti fondamentali per garantire l’esclusione dall’agricoltura, la selezione e la produzione sementiera biologiche di qualsiasi tipo di OGM, inclusi quelli ottenuti tramite le NGT. La proposta di regolamento presentata dalla Commissione non garantisce né la trasparenza né la tracciabilità degli organismi ottenuti con le NGT, né stabilisce idonee misure di coesistenza tra produzioni convenzionali (con NGT) e produzioni bio (prive di NGT). Inoltre, bypassa completamente le questioni relative ai diritti di proprietà intellettuale, nonostante il sempre più diffuso utilizzo dei brevetti. Per tutti questi motivi, respingiamo con forza la proposta. 

ECO-PB sottolinea il ruolo fondamentale dell’agricoltura biologica per favorire la transizione ecologica in Europa. I movimenti per il bio richiedono con forza che l’uso di qualsiasi tipo di Organismo Geneticamente Modificato (OGM) sia vietato in tutti i processi produttivi biologici. L’uso delle nuove tecnologie di editing genomico è in aperto contrasto con i principi fondamentali dell’agricoltura bio, oltre a violare il principio di precauzione e venire meno alle aspettative dei consumatori che nel biologico cercano prodotti privi di OGM. Per mantenere l’integrità del settore, tutti i tipi di OGM, compresi quelli derivanti da NGT di tipo 1 e di tipo 2, devono essere vietati in agricoltura biologica in tutti gli Stati membri dell’UE. Anche il regolamento Europeo sul biologico (2018/848) andrebbe modificato per escludere organismi ottenuti tramite qualsiasi tecnica che intervenga direttamente su isolati di DNA, RNA o proteine.

Tracciabilità 

Per tutelare il bio, il consorzio chiede che vengano resi obbligatori metodi efficienti e affidabili per la tracciabilità e l’etichettatura di tutti gli OGM, compresi quelli derivati da NGT. Ritiene necessario istituire un registro delle varietà OGM/NGT che contenga anche la geolocalizzazione dei siti dedicati alla loro produzione o moltiplicazione. Inoltre, chi sviluppa OGM, con tecniche vecchie o nuove, dovrebbe fornire un metodo per rilevare gli eventi di modifica. 

Contaminazione e coesistenza 

La bozza proposta dalla Commissione non mette in atto misure sufficienti per prevenire la contaminazione accidentale tra piante GM e non. Contaminazioni possono verificarsi in campo (attraverso l’impollinazione incrociata) o durante il processo di selezione e moltiplicazione in aziende o ditte sementiere che lavorano sia con varietà convenzionali che OGM/NGT. ECO-PB chiede che siano rese obbligatorie misure che minimizzano il rischio di contaminazione (distanza geografica, barriere fisiche) e che tali misure siano definite a livello Europeo e non delegate agli Stati membri. Inoltre, si chiede che venga applicato il principio “chi inquina paga” nei casi di contaminazione o altri effetti negativi. È particolarmente importante proteggere dalla contaminazione non solo tutte le produzioni biologiche e i processi di selezione varietale in bio, ma anche le risorse genetiche conservate nelle banche pubbliche o private. 

La Proprietà Intellettuale 

Nonostante esistano oltre 3000 brevetti su CRISPR e CROP, la proposta trascura la fondamentale questione dei diritti di proprietà intellettuale legata alle NGT. Il crescente utilizzo dei brevetti compromette la possibilità per i selezionatori e gli agricoltori di utilizzare le risorse genetiche vegetali per il loro lavoro. Il consorzio chiede una chiara regolamentazione della brevettabilità di organismi ottenuti da NGT prima che questi vengano rilasciati, e in questa direzione sostiene un cambiamento nella legge UE sulla brevettabilità di organismi viventi. 

Ci stiamo “mangiando” la biodiversità

Ci stiamo “mangiando” la biodiversità

L’agricoltura intensiva è la principale causa della scomparsa degli habitat. Serve un nuovo paradigma agroecologico basato sulla complessità.

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 259 – Maggio 2023

Il mese di maggio vede la ricorrenza di due date importanti. Il 20 si celebra la Giornata nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, istituita dalla legge 194/2015 intitolata “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare”. Il 22, invece, cade la Giornata mondiale della biodiversità, istituita dalla Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). La vicinanza tra queste due date è casuale, ma fortemente simbolica e politica: agricoltura e biodiversità sono mondi connessi uno all’altro, anche se nel corso del Novecento lo abbiamo dimenticato.

“L’agricoltura rappresenta una minaccia senza precedenti per la biodiversità in tutto il mondo -si legge sul sito della Cbd-. L’intensificazione della produzione alimentare sta danneggiando il nostro ambiente attraverso la conversione degli habitat naturali in monocolture, il degrado del suolo, il consumo smodato di acqua e l’uso insostenibile di pesticidi e fertilizzanti”.

Insomma, ci stiamo letteralmente “mangiando” il mondo nel quale viviamo, in un circolo vizioso dal quale non riusciamo a uscire e che produce obesità nei Paesi ricchi, senza risolvere il problema della fame in quelli poveri.

Certo, l’agricoltura può anche essere parte della soluzione, come raccontiamo in questa rubrica, ma sarebbe necessario un cambio di prospettiva e di analisi che ancora non si vede all’orizzonte né attuato nelle politiche agricole. Troppo spesso queste ultime sono ostaggio di dinamiche settoriali, che mirano a mantenere lo status quo, senza avere quella visione di lungo periodo che dovrebbe legare i sistemi agricoli a quelli alimentari, e quindi alla salute, e allo spazio naturale non coltivato intorno a noi. Insomma, una visione in grado di rovesciare il paradigma riduzionista ed economicista dell’agricoltura industriale, frutto del pensiero novecentesco, in nome di un nuovo paradigma agroecologico, basato su complessità, olismo e diversità.

Le specie animali e vegetali a rischio estinzione sono 41mila, secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn).

Un articolo pubblicato su Nature Food nel gennaio 2023 (“Reframing the local-global food systems debate through a resilience lens”) mette proprio la diversità in cima ai sette principi sui cui costruire i sistemi alimentari del futuro. Il tema, sostengono gli autori, non è tanto cercare di capire se è meglio il modello locale o globale di agricoltura (ognuno dei due può esserlo in contesti determinati e diversi), ma incoraggiare la diversità a tutti i livelli, lungo tutta la filiera alimentare.

Ovviamente, non si tratta solo di lavorare sulle pratiche, ma, soprattutto, sulle politiche, sui sistemi di governance e sulle dinamiche commerciali, dominate da veri e propri oligopoli e monopoli. Non a caso, l’articolo discute di governance policentrica e di ampia partecipazione della società civile alle politiche, elementi centrali per bilanciare la concentrazione di potere che viviamo oggi. E qui emerge un nodo dolente, legato al sistema di conoscenze e di informazioni sul funzionamento dei sistemi alimentari. È necessaria, infatti, una vera e propria alfabetizzazione alimentare in grado di rendere consapevoli cittadini e politici, troppo spesso influenzati dalla pubblicità e dalle attività di lobbying dell’industria agroalimentare. Per riallocare il potere tra gli attori della società e al loro interno, ci vuole un doppio percorso: politico dall’alto e sociale dal basso, come rivendicazione di diritti.

Trent’anni fa nel saggio “Monoculture della mente” Vandana Shiva scriveva: “Conservare la biodiversità è impossibile, finché essa non sia assunta come la logica stessa della produzione”, lanciando una sfida che non possiamo più eludere alla nostra società occidentale. Praticare la diversità sarebbe il mondo migliore per dare un senso compiuto alle celebrazioni di maggio.

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La distribuzione del biologico sta perdendo la sua diversità

La distribuzione del biologico sta perdendo la sua diversità

La concentrazione delle filiere in poche mani ne riduce la capacità innovativa: agricoltori e consumatori sono sempre più tenuti lontano

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 258 – Aprile 2023

È uscito lo scorso febbraio il nuovo rapporto Focus Biobank “Supermercati e specializzati” sul biologico, che conferma l’andamento degli ultimi anni. Il 2022 ha visto un aumento del mercato che ha superato la soglia degli otto milioni di euro, di cui il 40% è legato alle esportazioni. Se si allarga l’orizzonte agli ultimi dieci anni, si vede che i negozi specializzati hanno perso terreno nei confronti della grande distribuzione organizzata (Gdo), come abbiamo già avuto modo di raccontare in questa rubrica. Infatti, oggi la Gdo raggiunge quasi il 50% del totale delle vendite, mentre i negozi specializzati scendono a meno del 20%. Stiamo arrivando ai numeri di Paesi come Francia e Germania dove la soglia del 50% è già stata superata da anni.

Nel periodo del Covid-19 abbiamo assistito a una risalita delle vendite nei negozi, ma il 2022 registra una flessione sia rispetto al 2021 sia al 2020. Insomma, la pandemia non ha modificato le tendenze in corso e la marcia trionfale della Gdo continua con i prodotti a marca del distributore (Mdd) che arrivano a toccare il 20% del totale del fatturato. Stiamo assistendo, cioè, a un’integrazione sempre maggiore delle filiere all’interno della Gdo, in un mercato dove i nomi dei marchi dell’industria agroalimentare o dei produttori scompaiono per lasciare il campo a quelli delle catene della distribuzione.

Questo passaggio, che riguarda sia il biologico sia il convenzionale, è stato fotografato anche nel rapporto dello studio Ambrosetti “L’Italia di oggi e di domani: il ruolo sociale ed economico della distribuzione moderna” uscito a gennaio 2023. Il rapporto mette in evidenza come questo fenomeno abbia permesso agli italiani di contenere l’inflazione in salita di questi mesi grazie ai prezzi contenuti dei prodotti Mdd, con una stima che parla di un risparmio medio per famiglia di 77 euro. Come si capisce, diventa difficile in un momento di crisi come questa, avanzare qualche critica a un modello di distribuzione presentato non solo come efficiente e simbolo di modernità, ma anche in grado di far risparmiare le famiglie.

Tornando al biologico, il numero di negozi specializzati è sceso a 1.240 in tutta Italia, perdendone più di 200 in rapporto al 2017. Di questi, 434 fanno parte di catene specializzate, dove ormai NaturaSì è il leader indiscusso del settore con 368 negozi, seguito a lunga distanza dal mondo del macrobiotico che mantiene i suoi 28 punti vendita (erano 30 nel 2011) chiamati dal 2022 Stile Macrobiotico. Nel caso di NaturaSì assistiamo alla stessa strategia di puntare sui prodotti a marchio, proprio vista nella Gdo.

Il risparmio medio per famiglia nella spesa alimentare tramite l’acquisto di prodotti a marchio della catene della Grande distribuzione organizzata è stato di 77 euro

È triste constatare come il settore distributivo del biologico stia perdendo di diversità, in nome di una concentrazione che non riguarda solo il numero di soggetti della distribuzione, ma risale lungo la filiera per arrivare a controllare tutto il sistema agroalimentare dal seme al piatto. Meno diversità vuol dire meno concorrenza, ma non solo. Vuol dire anche che il suo valore aggiunto viene assorbito in gran parte dalle catene della distribuzione, senza avere un ritorno verso quegli attori sociali che promuovono il biologico e la trasformazione dei sistemi agroalimentari presso i cittadini, e creano innovazione con gli agricoltori nei territori.

Questa estrazione di valore riduce la capacità innovativa del biologico, che dovrebbe fondarsi, è opportuno ricordarlo, su processi di ricerca partecipativi e decentralizzati, ancora poco sostenuti dalla ricerca pubblica. Insomma, agricoltori e cittadini sono sempre più lontani fisicamente e socialmente, anche se sono anni che parliamo dell’importanza della filiera corta, del chilometro zero o del concetto di co-produttori.

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La nuova legge sul biologico e gli albori di un nuovo mondo sementiero

La nuova legge sul biologico e gli albori di un nuovo mondo sementiero

Le aziende avranno un ruolo chiave per valorizzare l’innovazione varietale partecipativa. Coinvolgendo agricoltori e cittadini

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 249 – Giugno 2022

Il 9 marzo scorso, dopo un iter lungo e faticoso, finalmente ha visto la luce la legge italiana dedicata a tutela, sviluppo e competitività del biologico (Legge 23/2022). È un momento simbolicamente importante perché sancisce la centralità del metodo di produzione biologico per lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile in Italia. Per questo motivo la sua approvazione è stata difficile: puntare sul bio vuol dire, tra le altre cose, ridurre l’impiego di prodotti chimici e quindi il mercato per chi li produce.

L’Italia è il terzo Paese europeo per consumo di pesticidi (circa 60mila tonnellate l’anno), con una riduzione dei consumi del 14%, tra il 2016 e il 2021, parallela alla crescita del bio. L’articolo 8 della legge istituisce il Piano nazionale delle sementi biologiche. Vediamo più in dettaglio il significato politico e l’importanza strategica di questo testo.

Un nuovo piano sementiero bio era atteso da anni, l’ultimo risale a dieci anni fa e non era riuscito a rispettare le molte aspettative che aveva generato. A quei tempi cominciava ad affacciarsi timidamente in Italia il tema del miglioramento genetico partecipativo, legato al pensiero, ancora quasi eretico a quei tempi, di avere sementi adatte al bio prodotte specificamente per questo modello. Alcune azioni sperimentali erano state finanziate in tal senso, ma sostanzialmente alla fine del piano la disponibilità di sementi bio non era aumentata e le deroghe erano rimaste lo strumento più usato dagli agricoltori per accedere alle sementi.

L’articolo 8 cita espressamente il miglioramento genetico partecipativo come strumento per fare ricerca varietale in bio, finalizzata a sviluppare sementi “adatte all’agricoltura biologica e biodinamica e ai diversi contesti ambientali e climatici, e ai diversi sistemi colturali”. Si tratta di un cambiamento di paradigma scientifico quasi epocale. Infatti nel 2008 il precedente piano sementiero nazionale aveva solo un’azione riferita al biologico che si occupava di “valutazione dell’idoneità di varietà alla coltivazione con il metodo biologico” e non di miglioramento genetico per il bio. E le conclusioni di allora, supportate dalla maggior parte del mondo scientifico, erano che le migliori varietà in convenzionale sono anche le migliori in biologico. Da questo punto di vista la legge rappresenta un importante passo in avanti.

In un anno in Italia vengono utilizzate mediamente 60mila tonnellate di pesticidi. Il nostro è il terzo Paese europeo per consumo di questi prodotti. 

Adesso il ministero delle Politiche agricole dovrà adottare entro ottobre il nuovo Piano, sperando che l’innovazione presente nella legge venga tradotta in azioni pratiche con un impatto reale sul mondo sementiero, includendo anche gli agricoltori. La difficoltà starà nel capire che lavorare nel biologico prevede un cambiamento del modello economico classico delle ditte sementiere: l’obiettivo è di avere tante varietà adatte a tanti contesti diversi e non poche da vendere a più clienti possibili. Ovviamente nel secondo caso i costi di ricerca e sviluppo si riescono ad ammortizzare mentre nel primo no.

Quindi dovremo ripensare il rapporto tra ditte private e agricoltori. Finora le politiche agricole e l’ideologia economica liberista hanno pensato a questo rapporto come a una mera relazione di vendita, con l’agricoltore semplice consumatore di sementi. Oggi dobbiamo immaginare un sistema diverso, riportando le ditte sementiere nei contesti locali di sviluppo varietale e produzione delle sementi e legandole inoltre a gruppi decentralizzati di ricerca dove coinvolgere agricoltori, ricercatori e cittadini. L’innovazione varietale partecipata così prodotta viene veicolata sul mercato dalle ditte sementiere, ma senza patenti di proprietà. La ditta diventa uno dei soggetti economici in grado di animare il tessuto rurale su cui insiste. Siamo solo agli albori di un nuovo mondo, ma l’orizzonte comincia a delinearsi.

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Il mondo del biologico e la sfida del successo

Il mondo del biologico e la sfida del successo

Il boom degli ultimi anni obbliga il movimento a nuove sinergie per sostenere l’innovazione e ottenere supporto tecnico oggi mancante

di Riccardo Bocci – Tratto da Altreconomia 241 – Ottobre 2021

Dal 6 al 10 settembre 2021 si è tenuto a Rennes (Francia) il Congresso mondiale del biologico della Federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica (Ifoam, ifoam.bio). Si tratta del momento più importante di scambio di conoscenze, esperienze e politiche organizzato da Ifoam ogni tre anni. La scelta della Francia è stata altamente simbolica perché proprio qui, nel 1972, Ifoam è stata fondata durante un congresso dell’organizzazione francese Nature et progrès. A quei tempi ancora non si parlava di certificazione e nessuno poteva prevedere il boom economico di questi ultimi anni. Nature et progrès ha poi scelto di rimanere fuori dalla certificazione di terza parte, diventata legge con i regolamenti comunitari del 1992, e ha continuato a etichettare i prodotti dei suoi associati con il sistema della garanzia partecipata senza poter mettere il logo del bio europeo. Lo slancio filosofico, sociale ed etico legato alla nascita di Ifoam del 1972 è stato nel tempo assorbito dalla certificazione e (oggi più che mai) dal settore commerciale, che vede nella grande distribuzione organizzata e nell’hard discount il principale volano del biologico ai consumatori.

Nelle intenzioni degli organizzatori le giornate di Rennes avrebbero dovuto essere un momento di riflessione per capire come rispondere alle sfide che il biologico si trova ad affrontare in conseguenza del suo successo. Purtroppo, la gestione ibrida dell’incontro (un po’ in presenza e la maggior parte dei partecipanti online) non ha permesso di avere una riflessione strategica condivisa, lasciando la questione irrisolta sul tavolo: come mantenere intatte le istanze innovative, etiche e sociali del biologico in un mercato che tende a standardizzarlo e convenzionalizzarlo?

Trovare la risposta non sarà facile, ma la strada dovrà passare da un confronto serrato tra pratiche ed esperienze locali e mondo della trasformazione e distribuzione specializzato sul biologico con l’obiettivo di trovare delle sinergie che sostengano l’innovazione, l’animazione e l’assistenza tecnica necessari.

1972
L’anno di fondazione della Federazione Internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica (Ifoam) che oggi ha membri in oltre cento Paesi.

Un dato è emerso chiaramente nella sessione di apertura del Congresso riportato da Nicolas Hulot, ambientalista francese e ministro dimissionario della Transizione ecologica del Governo Macron per manifesta impossibilità a imporre il tema ambientale nell’azione del governo. In Francia e in Europa i fondi pubblici destinati alla ricerca per il biologico sono solo l’1% del totale della ricerca agricola, e la situazione non è diversa in Italia. A fronte di una crescita economica e di superficie coltivata, il sistema di ricerca e assistenza tecnica è rimasto sostanzialmente “convenzionale”: il biologico non ha quel supporto tecnico e scientifico che sarebbe essenziale per svilupparsi. Non è una sfida facile perché si tratta di riorientare le scienze agrarie rispetto agli indirizzi degli ultimi quarant’anni: uscire dalle stazioni sperimentali e dai laboratori per andare incontro alla diversità delle reali condizioni di coltivazione degli agricoltori e ai loro bisogni, favorendo la partecipazione di tutti gli attori coinvolti (anche i cittadini) e decentrando le attività. In ambedue i casi -il mercato e la ricerca- la soluzione andrà cercata nella ricostruzione di quei corpi sociali intermedi che stiamo vedendo lentamente scomparire: non più organizzazioni o sindacati di settore, ma realtà sociali ibride, fortemente connesse con i territori su cui insistono, capaci di parlare “lingue” diverse e mettere in relazione innovazione, mercato e assistenza tecnica in una visione condivisa e inclusiva della società.

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